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La storia della fotografia
La parola fotografia deriva dal greco antico ed è composta dai due termini φῶς (phôs, pronuncia fos) e γραφή (graphè, pronuncia grafé). Il primo significa luce mentre il secondo si traduce in scrittura o disegno: ovvero la scrittura eseguita con la luce.
La storia della fotografia è ben più antica di quanto si possa immaginare ed affonda le proprie radici molto indietro nella storia dell’uomo. La prima volta, per esempio, che si descrive il processo della camera oscura, risale al V secolo a.c. ad opera del filosofo cinese Mo-Ti (Mo.tzu; Micius): il filosofo, in un’opera riassumente il suo pensiero, fece riferimento al principio della camera oscura, parlando di “ un luogo di raccolta”, di una “stanza del tesoro sotto chiave”, a proposito di un’immagine capovolta formatasi su di una parete di una stanza buia a causa dei raggi del sole passati attraverso un foro posto nella parete di fronte
Anche il filoso Aristotele (IV Secolo a.c.) descrisse per grosse linee la futura camera oscura nel suo “De re publica”: nell’opera viene descritta la creazione di ombre tramite un fuoco posto alle spalle degli spettatori. Anche nel Problemata Physica Aristotele fa riferimento allo stesso principio, questa volta relativo ad un’eclissi. Aristotele osservò l’eclissi da una stanza buia con un foro rettangolare su di una parete dal quale filtravano i raggi del sole. Si rese conto che al distanziarsi del foro dalla superficie di osservazione, il diametro dell’immagine qui sopra “disegnata” dai raggi del sole tendeva ad aumentare.
Successivamente fu la volta di Euclide (IV secolo a.c.) che nel suo trattato l’Ottica descrisse una rudimentale camera oscura.
Facciamo quindi un salto di parecchi anni e passiamo alla seconda metà del novecento: in questo periodo fu filosofo, medico, matematico ed astronomo arabo Alhazen a descrivere in dettaglio la camera oscura nonché il fenomeno del ribaltamento delle immagini.
Inoltre, durante il Medioevo gli alchimisti crearono casualmente il cloro (scaldando del cloruro di sodio – il sale) e si resero conto, sempre per caso, che combinando il cloro con l’argento si creava una sostanza (il cloruro di argento) bianca al buio e viola scuro alla luce diretta del sole. Avevano insomma scoperto il primo composto fotosensibile.
La storia della fotografia: la camera obscura
Il termine camera obscura (in italiano camera oscura) fu coniato da Giovanni Keplero (fece cenno a questo nome nella sua opera Paralipomena ad Vitellionem) ed indicava un ambiente buio dalle differenti dimensioni (poteva essere una scatola o anche una stanza), in cui, su una parete, era praticato un foro stenpeico (dal greco stenòs, stretto, e opé, foro). Attraverso il foro stenopeico i raggi luminosi provenienti da oggetti esterni si incrociano proiettando sulla parete opposta un’immagine capovolta degli stessi oggetti. Tanto più piccolo è il foro stenopeico tanto più nitida è l’immagine proiettata, il tutto però a scapito della luminosità (che al contrario aumenta con l’aumentare della luce).
La camera oscura venne impiegata principalmente per osservare la luce e studiarne il comportamento.Troviamo inoltre riferimenti alla camera oscura nei lavori di Ruggero Bacone – XII secolo, Guglielmo di Saint-Cloud – XIII secolo ma soprattutto in quelli di Leonardo da Vinci (1452-1519) che utilizzò la camera oscura per descrivere e spiegare alcuni fenomeni ottici quali l’inversione delle immagini presenti nel campo visivo da destra a sinistra o per descrivere il funzionamento di alcune funzioni visive quali l’apertura della pupilla, tecnicamente simile all’apertura del foto stenopeico.
Ed ecco per la cronaca uno stralcio del Codice Atlantico in cui si descrive, appunto, la camera obscura: “La sperientia che mostra come li obbietti mandino le loro spetie over similitudini intersegate dentro all’ochio nello umore albugino si dimostra quando per alcuno piccolo spiraculo rotondo penetrano le spetie delli obbietti alluminati in abitatione fortemente oscura; allora tu riceverai tale spetie in una carta bianca posta dentro a tale abitatione alquanto vicina a esso spiraculo e vedrai tutti li predetti obbietti in essa carta colle lor propie figure e colori, ma saran minori e fieno sotto sopra per causa della detta intersegatione li quali simulacri se nascierano di loco alluminato dal sole paran propio dipinti in essa carta, la qual uole essere sottilissima e veduta da riverscio, e lo spiracolo detto sia fatto in piastra sottilissima di ferro”.
Fu infine il matematico olandese Rainer Frisius a disegnare per primo la camera oscura (1544).
La camera obscura (o oscura) ha successivamente interessato svariati personaggi in giro per il mondo e tantissimi modelli, dalle forme anche bizzarre, hanno visto la luce. La forma più classica è quella di una scatola di legno, rettangolare, con un foto stenopeico su di un lato ed una lastra dalla parte opposta dove osservare l’immagine. L’immagine in questione appariva capovolta ed è stata utilizzata, come già detto in precedenza, da più di un pittore per catturare su tela dei panorami nella maniera più fedele possibile.
La camera obscura (o oscura) subì svariate modifiche nel corso degli anni: nella metà del XVI secolo (e più precisamente nel 1550) Girolamo Cardano applicò per primo una lente biconversa dinanzi al foro stenopeico per rendere l’immagine più nitida. Successivamente, nel 1569, un altro italiano di nome Daniele Barbaro introdusse un diaframma dalla dimensione inferiore a quella della lente al fine di migliorare ulteriormente la qualità dell’immagine riflessa. Nel 1951 Giovanni Battista della Porta descrisse un apparecchio munito di lente in grado di rendere le immagini più nitide. All’interno di questo apparecchio era anche descritto uno specchio concavo al fine di “raddrizzare” le immagini: si tratta, più o meno, di quanto accade nelle moderne reflex dove grazie ad un vetro smerigliato è possibile vedere l’immagine diritta attraverso il mirino.
Nel 1646 il gesuita Kircher realizzò una camera oscura dalle enormi dimensioni (vedi il disegno sopra riportato), tale da poter ospitare al suo interno comodamente più di una persona (lo stesso Kircher inventò la lanterna magica, ovvero il primo proiettore, ma è un’altra storia). Infine, nel 1657 fu il gesuita Schott ad inventare la camera oscura dotata di messa a fuoco: realizzò in pratica due scatole di cui una scorrevole dentro la prima. Muovendo avanti ed indietro la seconda, era possibile modificare la messa a fuoco dell’immagine.
Il 1685 segnò un altro momento importante per la fotografia, in quanto fu concettualizzata la macchina fotografica Reflex: il tedesco Johann Zahn, infatti, applicò nella camera oscura uno specchio posizionato a 45° dinanzi alla parete opposta al buco stenopeico. Sulla sommità della camera oscura posizionò un vetro smerigliato che riceveva l’immagine ribaltata dallo specchio di cui prima: questa invenzione permise ai pittori di disegnare i panorami stando comodamente seduti ed appoggiando le tele al di sopra di questo vetro.
Proprio a proposito dei pittori, bisogna dire che la camera oscura ebbe anche un ulteriore campo di applicazione: la pittura. Tantissimi pittori infatti usarono la camera oscura per riprodurre fedelmente i paesaggi proiettati sulla tela tramite il foro stenopeico, tra cui anche nomi altisonanti quali il Canaletto, Raffaello e Caravaggio. Proprio riguardo a quest’ultimo ci sono prove piuttosto importanti riguardo all’uso della camera obscura: l’assenza di schizzi e bozzetti, il fatto che buona parte dei suoi soggetti fossero mancini (l’immagine ribaltata) e lo stesso sfondo molto scuro (dovuto, in teoria, al fatto che il suo studio fosse immerso nel buio in quanto, appunto, una camera oscura). Lo stesso Caravaggio sembra abbia usato alcune sostanze chimiche per “fissare” l’immagine sulla tela per qualche minuto, al fine di poter abbozzare il disegno stesso al fine di concluderlo “diritto” ed un ambiente differente.
Ovviamente in parallelo allo sviluppo della camera oscura si lavorò tantissimo anche sul modo di fissare in maniera indelebile le immagini proiettate all’interno della camera stessa (come detto, già il Caravaggio trovò un modo per fissarle per alcuni minuti). I primi esperimenti in tal senso furono effettuati
Tornando al processo chimico relativo alla fotografia, nel XVI secolo, l’inglese Boyle notò come il clorato d’argento reagiva alla luce (scurendosi) mentre nel secolo successivo (XVII) l’italiano Angelo Sala scoprì che anche la polvere di nitrato d’argento veniva annerita dal sole. Stesso fenomeno osservato su ioduro d’argento e bromuro d’argento. Risultati similari furono ottenuti anche da un altro chimico inglese (Humphry Davy).
Bisogna però attendere il 1727 quando il tedesco Johann Heinrich Schulze creò un composto a base di carbonato di calcio, acqua regia, acido nitrico e argento che reagiva alla luce solare: colpito da questa diventava rosso scuro (come contenitore utilizzò una banalissima bottiglia a cui applicò delle sagome di cartone per coprire le zone che non voleva fossero colpite dalla luce). La sostanza fu chiamata scotophorus. Ovviamente, non essendo “fissata”, le immagini restavano visibili solo temporaneamente in quanto, durante l’osservazione delle stesse, assorbivano luce solare annerendosi a loro volta.
Fu comunque il fisico Italiano Giovanni Battista Beccaria a provare scientificamente che il fenomeno dell’annerimento era dovuto alla presenza di sali d’argento, un materiale sensibile alla luce del sole.
Alla fine del 1700 un inglese, il ceramista Thomas Wedgwood, inventò la prima “pellicola fotosensibile”: immerse dei fogli di carta nel nitrato d’argento e si rese conto che, coprendo una parte con degli oggetti ed esponendolo alla luce del sole, il foglio riportava la forma dell’oggetto su di esso posto. Peccato che, una volta tolto l’oggetto, in poco tempo tutto il foglio si scuriva, tant’è che le immagini catturate potevano essere osservate solo alla fioca luce di una candela. Thomas Wedgwood non potè perfezionare la sua scoperta in quanto gravemente malato (e successivamente morto).
La data da ricordare è però il 1819: Herschel scopre che il trisolfato di sodio può fissare definitivamente un’immagine catturata da un foglio imbevuto di nitrato d’argento. Il Trisolfato di sodio infatti “elimina” tutto l’argento che non ha reagito alla luce, evitando quindi che il foglio si scurisca una volta lasciato alla luce del sole. E’ nata la fotografia.
Piccolo passo indietro: nel 1806 il medico, fisico e chimico inglese William H. Wollaston brevettò un dispositivo ottico il cui scopo era quello di aiutare il disegno di paesaggi e di oggetti posti dinanzi ad esso (usò il nome di camera lucida). Successivamente, nel 1812, lo stesso Wollaston sostituì la lente convessa aggiunta da Cardano con una concavo-convessa, ulteriore passo verso il principio di funzionamento delle reflex.
Storia della Fotografia: Niepce
Nel 1827 venne scattata ad opera di Niépce la più antica fotografia mai giuntaci. La veduta dalla sua finestra della casa di campagna.
Joseph Nicéphore Niépce nacque nel 1765 nella cittadina di Chalon-sur-Saône da famiglia borghese e benestante. Fece una brillante carriera come inventore (dopo aver più volte pensato a prendere i voti e dopo aver militato nelle armate rivoluzionarie): a lui dobbiamo infatti un primo prototipo di motore a combustione interna, vari prototipi per la propulsione di navi ed imbarcazioni, nonché per il pompaggio delle acque. L’interesse l’interazione della luca nella camera oscura (ed in senso lato per la fotografia) arrivò nel 1816 e dieci anni dopo, nel 1826, riuscì a riprodurre la sua prima immagine “automatica”, ovvero non disegnata della mano dell’uomo. Niépce catturò l’immagine utilizzando una lastra fotografica di sua invenzione: spalmò su di una lastra di rame ricoperta di argento una soluzione fotosensibile composta da del bitume di Giudea polverizzato e dell’essenza di lavanda. Successivamente all’asciugatura della lastra (il negativo), questa venne esposta, in una camera oscura, per alcune ore. Quindi lavata in un bagno alla lavanda (serviva per disciogliere le parti che non avevano ricevuto luce) ed asciugata.
Per il positivo Niépce utilizzò dei cristalli di iodio, precipitati in ioduro d’argento al contatto con la lastra. Successivamente “lavò” via la vernice (con alchool) dalla lastra stessa, al fine di ottenere la trasformazione del negativo in positivo (in pratica ha scoperto la eliografia).
Nel 1826, ad onor di cronaca, Hans Thøger Winter “avrebbe” ottenuto dei negativi fotografici stabili. Nel 1828 fu James M. Wattles ad ottenere delle fotografie stabili (in entrambi i casi non vi sono prove).
Storia della Fotografia: Daguerre
Nel 1832 il brasiliano Hercules Florence riesce ad ottenere a sua volta delle fotografie stabilizzando del nitrato di argento sulla carta con un procedimento del tutto simile a quello realizzato da Niépce (vedi sopra) e soprattutto da Daguerre: sarà quest’ultimo ad imporre il processo fotografico grazie all’interessamento del governo francese che acquisto il brevetto e lo rese libero. Era il 1839. Nasce la fotografia commerciale.
Daguerre, da sempre innamorato della pittura, cominciò la sua carriera lavorativa in un freddo ufficio delle imposte dirette, per volere del padre. Fuggito da questa specie di “carcere”, il giovane Daguerre si trasferì a Parigi, dove divenne allievo di un celebre scenografo del tempo. Proprio questa collaborazione permise a Daguerre di divenire, in brevissimo tempo, uno degli scenografi più ricercati di Parigi, grazie alla sua perizia nonché immaginazione nella creazione di quinte e fondali. Nel 1822 realizzò un proprio spettacolo, meccanizzato: il Diorama, distrutto da un incendio dopo 17 anni di successi, era una sala circolare (poteva ospitare fino a 350 spettatori) con le pareti mobili. Una volta “acceso”, le pareti del Diorama cominciavano a girare intorno agli spettatori, permettendo a questi ultimi di osservare le scene dipinte sulle stesse. Le stesse pareti erano sistemante prospetticamente, con distanze variabili tra i 15 ed i 20 metri. Le pareti erano lunghissime tele di cotone semitrasparenti con lunghezze che potevano arrivare ai 22 metri e con un’altezza comune di 14 metri. Delle luci posizionate ad hoc garantivano un gioco di luci ed ombre che conferivano ulteriore profondità e movimento alle immagini rappresentate sulle tele.
Facciamo un passo indietro e andiamo a vedere cosa Daguerre e il suo collega Niépce hanno fatto: l’idea alla base di tutto era quella di fissare le immagini che apparivano all’interno della camera obscura (una scatola composta da lenti e specchi che permetteva di riflettere su di un piano l’immagine presente dinanzi alle lenti: l’antesignano delle macchine fotografiche a specchio, note sin dai tempi di Aristotele).
Niépce e Daguerre entrarono in contatto nel 1829 a Chalon-sur-Saòne, firmando un contratto di associazione, al fine di sviluppare ulteriormente l’idea dello stesso Niepce. Daguerre apportò immediatamente delle migliorie al processo eliografico, sostituendo il bitume con della resina ottenuta disciogliendo la lavanda in alcool. Quindi, prima del lavaggio della lastra stessa, la espose a vapori d’olio di petrolio. I vapori in questione condensavano sulle parti della lastra non colpite dalla luce, sciogliendo la resina e rendendo quelle zone trasparenti. Al contrario, le zone esposte alla luce non venivano toccate dai vapori.
La prima foto della storia di un essere umano (in basso a sinistra). La persona in questione rimase ferma per quasi tutti i 12 minuti dell’esposizione
Sempre Daguerre, nel 1831, si accorse che lo ioduro d’argento era sensibile alla luce. Ma ancor più importante, riuscì a fissare l’immagine latente (da Wikipedia: L’immagine latente è una alterazione nella superficie esterna delle particelle degli alogenuri d’argento contenuti nella pellicola, causata dalla luce. Ovvero è imputabile alla riduzione fotochimica di pochi atomi di Ag per ogni particella che compone l’emulsione. L’immagine reale, visibile dopo il trattamento di sviluppo, è costituita da particelle di argento ridotto che cioè hanno subito un processo di ossido-riduzione ). E lo fece per caso, quasi per errore: un giorno, dopo aver esposto una lastra trattata con vapori di sodio senza successo (era rimasta immodificata!), ripose questa in un armadio insieme a parecchi materiali chimici. Dopo qualche giorno, andò per prendere nuovamente la lastra per ritrattala e si accorse che si di essa era comparsa un’immagine: quella che avrebbe voluto catturare.
Daguerre dovette fare non pochi tentativi per individuare quale sostanza chimica avesse realizzato il miracolo e dopo parecchi giorni e lastre, individuò il colpevole nei vapori di mercurio (fuoriuscite da un termometro che si era rotto). Questa però non era la soluzione: alla luce diretta del sole l’immagine scompariva. Daguerre quindi seguì la via del cloruro d’argento (che al contrario tendeva a trasformare la lastra in una lastra nera se tenuta alla luce del sole) e dopo vari tentativi, nel 1837, giunse alla soluzione finale, ovvero definì il processo che si chiamò dagherrotipo.
Prima di giungere al dagherrotipo, però, dobbiamo tornare di qualche anno indietro e capire che fine ha fatto Niepce: Daguerre, di 34 anni più giovane del collega Niepce cominciò a considerarsi come l’unico inventore di questa nuova “arte”. Cosa però impossibile dal punto di vista legale a causa del contratto firmato, che appunto legava la scoperta, anche in caso di morte di uno dei due, ad entrambi i nomi. Morte che sopraggiunge, per Niepce, nel 1833. Il posto di Niepce, nella società, fu preso dal figlio, decisamente più ingenuo del padre, al punto di firmare un nuovo contratto con Daguerre proprio nel momento in cui lo stesso inventore definì il dagherrotipo. Ecco un estratto del contratto: “Io sottoscritto dichiaro con il presente scritto, che il signor Louis Jacques-Mandé Daguerre mi ha fatto conoscere un procedimento di cui è inventore”. Ed ancora: “Questo nuovo mezzo ha il vantaggìo di riprodurre gli oggetti dieci o venti volte più rapidamente di quello inventato dal signor Joseph-Nicéphore Niepce, mio padre”.Infine: “In seguito alla comunicazione che mi ha fatto, il signor Daguerre acconsente ad abbandonare alla società il nuovo procedimento di cuì è inventore e che egli ha perfezionato, a condizione che questo nuovo procedimento porti solo il nome dì Daguerre”. Insomma, Daguerre è ufficialmente diventato l’inventore della moderna fotografia, cancellando di fatto Niepce.
Torniamo ora al procedimento che Daguerre chiamò con il nome di Dagherrotipo e vediamo come funziona:
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preparazione di una lastra di rame argentata tramite elettrolisi e quindi pulita utilizzando acqua ed un abrasivo molto fine
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sensibilizzazione della lastra esponendola ai vapori di iodio fin quando questa non era completamente ricoperta di uno strato giallastro di ioduro d’argento
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Esposizione della lastra alla luce del sole per circa 20 minuti
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Sviluppo dell’immagine esponendo la lastra a vapori di mercurio riscaldato a 60º (tramite fiamma ad alcol). Il mercurio si lega allo ioduro di argento creando uno strato biancastro in corrispondenza delle luci.
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Stabilizzazione dell’immagine lavando la lastra in una soluzione calda di cloruro di sodio concentrato che andava a togliere lo iodio eccedente e rendendo in questo modo l’immagine permanente e definitiva.
Il risultato fu eccelso: ecco una foto ottenuta con questo procedimento. Ovviamente, per rendere il tutto più comodo, Daguerre introdusse la sua lastra dentro una camera obscura. Era la prima macchina fotografica.
Daguerre: foto ottenuta tramite dagherrotipo
Daguerre, grazie all’amicizia con il fisico ed astronomo Domenico Francesco Arago, componente dell’Accademia delle Scienze,
Il resto è storia politica: nel 1838 lo Stato Francese comprò la tecnica di Daguerre (pagando una pensione annua di 6.000 franchi a Daguerre e 4.000 agli eredi di Niepce, un vero patrimonio), il 6 Gennaio 1839 fu annunciata la scoperta della tecnica sulla ‘Gazette de France’, il 19 Agosto 1839 fu finalmente reso pubblico il procedimento durante una riunione plenaria dell’Accademia delle Scienze e dell’Accademia delle Belle arti francese, grazie anche all’interessamento dell’amico Domenico Franscesco Arago. In tutti gli annunci, fu sempre e solo Daguerre ad essere considerato l’inventore della tecnica, mentre Niepce fu solo citato come collaboratore. La fama di Daguerre crebbe a dismisura, ricevette la Legion d’Onore e fu eletto membro onorario dell’Accademia delle Scienze.
Sempre nel 1839 Daguerre, forte dei soldi ricevuti dallo Stato per il brevetto, realizzò con il cognato Alphonse Giroux (un cartolaio di Parigi) la prima fabbrica di macchine fotografiche: camere oscure realizzate in legno e con lenti acomatiche di Chevalier (le creò nel 1829 e avevano una lunghezza focale di 40,6 cm ed una luminosità di f/16 – ricordo che la camera oscura era usata per molteplici scopi come osservazione del cielo o per la pittura). A proposito, Daguerre fu molto furbo: venduto il brevetto in Francia, andò in Inghilterra e brevettò nuovamente la sua scoperta…in Inghilterra per usare il suo procedimento bisognava pagare le licenze d’uso!
Daguerre divenne ricchissimo e visse il resto della sua vita tra agi e, appunto, ricchezze, ma bisogna comunque dire che non furono tutte rose e fiori, tant’è che all’indomani dell’annuncio all’accademia delle Scienze non furono poche le polemiche.
Il tedesco Hofmeister (un parroco) ad esempio rivendicò l’invenzione nel 1834, il francese Gauné nel 1827, l’inglese Towson nel 1830 e l’inglese Reade nel 1836. Ma nessuno riuscì in realtà a dimostrarlo, per cui fu tutto un nulla di fatto. Anche per Baygard ci fu poca gloria, probabilmente colui che realmente inventò la fotografia prima di Daguerre e Niepce stesso. Hippolite Bayard era un impiegato del Ministero delle Finanze che nel tempo libero si “dilettava” con esperimenti fotografici, al punto di riuscire, tre anni prima l’annuncio di Daguerre, ad ottenere un positivo direttamente nella camera oscura, utilizzando carte di cloruro d’argento. Bayard fu praticamente messo in ombra dall’amico di Daguerre, Arago, che più volte tentò di dissuadere (prima demoralizzandolo e poi pagandogli la miseria di 600 franchi) il francese dal proseguire per la sua strada, convincendolo infine a passare all’uso del dagherrotipo.
Per rendere chiaro quanto il dagherrotipo divenne popolare e quanto Daguerre divenne ricco, pensate che a Parigi, nel 1847, furono vendute qualcosa come 2000 macchine fotografiche e mezzo milione di lastre fotografiche.
La dagherrotipia fu una vera rivoluzione, non solo dal punto di vista dell’innovazione tecnologica, ma anche culturale: furono tantissimi i pittori che abbandonarono i pennelli per passare alla macchina fotografica, attratti dal nuovo modo di catturare le immagini molto più somigliante alla realtà di quanto potessero fare a mano. Ci fu un proliferare di ritrattisti che, forti della novità (e soprattutto all’uso di lastre dorate che riproducevano, più o meno, il colore della pelle), riuscivano a vendere centinaia di ritratti a prezzi altissimi (in Inghilterra si parla di 5 sterline a fotografia, un salasso per quel periodo). Proprio l’uso delle lastre dorate (e quindi della sensazione di colore) fu alla base dello sviluppo delle prime immagini di nudo (gli antenati di Playboy e simili): si trattata di foto di quadri(non direttamente di modelle, sarebbe stato impossibile ottenere un’immagine a fuoco con una modella vivente, considerando i lunghi tempi di esposizione!) realizzati quanto più possibili simili alla realtà. La fotografia, in pratica, permetteva di duplicare il quadro in tempi molto ristretti, oltre che far guadagnare montagne di soldi a chi le realizzava e vendeva.
Storia della Fotografia: Talbot
Passiamo adesso al 1841, Inghilterra: William Henry Fox Talbot creò il metodo chiamato calotipia. Trattasi di una tecnica basata sull’utilizzo di un negativo di carta: in questo modo, partendo da una sola matrice era possibile creare moltissime copie. Nasce la fotografia analogica attuale.
La calotipia di Talbot, ad essere precisi, nacque come idea già nel 1833, quando l’inglese era in vacanza in Italia, sul lago di Como, e fu folgorato da un’idea mentre realizzava disegni con l’ausilio di una camera obscura. Come successivamente raccontò: “Riflettevo sull’immutabile bellezza dei quadri che la Natura offre e che le lenti della camera oscura riproducono sulla carta. Quadri favolosi che però si dissolvono in un baleno. Fu facendo questi pensieri che mi venne in mente come sarebbe stato bello fare in modo che le immagini naturali si imprimessero da sole sulla carta rimanendovi fissate per sempre“.
Gli ci vollero 6 anni per trasformare l’idea in qualcosa di tangibile e nel 1839 (lo stesso anno del dagherrotipo) rese noti i suoi studi ed il suo metodo, nominato Talbotype, successivamente migliorato e chiamato, appunto nel 1841, calotipia.
Il sistema non era tanto dissimile da quello di Daguerre: il foglio di carta per il positivo e quello per il negativo erano imbevuti di cloruro di sodio e quindi sensibilizzato con lo ioduro d’argento, sostituito poi dal trisolfato di iodio. L’effetto finale era migliore per il tipo di supporto impiegato (carta invece di lastra) come si può vedere nella foto di seguito.
Foto ottenuta con il procedimento della calotipia
Il grandissimo vantaggio della calotipia è che era basato sul dualismo negativo-positivo e non sul negativo trasformato in positivo. Ciò significa che, partendo da un negativo, era possibile ricavare più positivi.
In pratica, Talbot fotografava la scena usando la carta che fungeva da negativo. Successivamente fotografava il negativo al fine di invertire l’immagine, rendendola di conseguenza un positivo. Nel fare ciò, il negativo non veniva più toccato ma poteva essere usato all’infinito come fonte delle fotografie.
Inoltre, proprio per la scissione fisica tra negativo e positivo, era anche possibile ingrandire il negativo e quindi ottenere delle fotografie “zoomate”. Il problema delle foto di Talbot rispetto a quelle di Daguerre, però, era la sensazione di colore: il dagherrotipo permetteva di fotografare su “lastre”,mentre la calotipia su carta. Nel secondo caso il colore era dato principalmente dal tipo di carta impiegato, quindi molto più piatto di quanto non si potesse ottenere con la dagherrotipia e con le sue lastre dorate. Di contro, però, le fotografie realizzate con la tecnica della calotipia erano colorabili a mano (era carta), una tecnica usata spessissimo dai pittori che passarono alla fotografia abbandonando “parzialmente” i pennelli.
Storia della Fotografia: l’evoluzione
Tra il 1841 ed il 1851 si utilizzano i due procedimenti di cui sopra affinandoli e migliorando la qualità soprattutto delle sostanze fotosensibili.
Nel 1847 Niépce de Saint Victor idea un procedimento che non ebbe molta fortuna: creò il negativo su lastra di vetro albuminata. Idea pessima per quanto riguarda la scarsa sensibilità del prodotto finale, ottima (tanto da diventare il procedimento standard per i successivi 50 anni!) nell’intuizione di usare l’albumina quale “colla” per la soluzione fotosensibile. Sono le basi per la realizzazione della carta all’albumina ad opera di Luois Blanquart-Evrard).
Nel 1851 arriva un forte salto di qualità grazie a Frederick Scott Archer che inventò la tecnica del collodio umido. In questa tecnica, la lastra viene sensibilizzata poco prima del suo uso. Il che significa usarla quando è ancora umida (da cui il nome): il risultato è talmente buono da spazzare via le soluzioni basate sul dagherrotipo e calotipia.
Nel 1861 il James Clerk Maxwell sviluppò quella che potremmo definire l’antesignano del sensore fotografico “analogico”, o meglio dell’RGB: in pratica effettuava tre fotografie dello stesso soggetto su tre differenti lastre attraverso tre filtri di colore Blu, verde e rosso. Le tre lastre venivano quindi sviluppate in tre diapositive che venivano proiettate per “sovrapposizione” tramite tre proiettori a cui erano applicati i medesimi filtri: il risultato era un’immagine a colori dell’oggetto fotografato. Nasce la fotografia a colori.
La rivoluzione della qualità fotografica arriva nel 1871: Richard Leach Maddox crea il sistema a secco per produrre le lastre alla gelatina di bromuro d’argento. Addio all’umido e via libera alla portabilità massima delle lastre fotografiche.
Prima foto a colori della storia
Nel ventennio tra il 1851 ed il 1871 ci saranno parecchie invenzioni: dalla fotoincisione (Talbot, 1852) alla fotolitografia (Pointevin, 1855), dallo stereoscopio a lenti (Davi Brewster, 1851) fino alla teorizzazione della fotografia a colori (Louis Ducos Du Hauron, 19862). Lo stesso Ducos pubblicherà, nel 1869, un articolo che descrive un metodo per ottenere immagini a colori. Nel frattempo, nel 1867, venne fondata una società che risulterà particolarmente attiva nel settore fotografico futuro: la tedesca Agfa.
Passiamo al 1881: nasce grazie a Eder e Pizzighelli la carta al cloruro d’argento, altro momento molto importante nella strada di avvicinamento ai moderni apparecchi fotografici.
Storia della fotografia: la fotografia moderna
Il 1883 è la data storica per tutta la fotografia: una piccola azienda americana mette in vendita una fotocamere in grado di separare nel tempo i processi di preparazione, ripresa, sviluppo della foto e stampa della stessa. Quella ditta era la Kodak (morta poi nel 2012) e quella fotocamera (inventata dal grandissimo George Eastman) era la prima vera macchina fotografica: al suo interno vi era un rullo ci carta speciale (il primo rullino in pratica, inventato sempre da Eastman: si trattava della prima pellicola flessibile mai realizzata in serie) che, muovendosi, permetteva di scattare fino a 100 foto. I fotografi potevano in questo modo scattare 100 pose e quindi, a fine rullo, riportare la macchina alla Kodak. Gli esperti dell’azienda ricaricavano la macchina con un nuovo rullo e sviluppavano le fotografie fatte con quello usato. Il modello in questione, commercializzato nel 1888, venne chiamato semplicemente Box Kodak, venduto a circa 25 dollari e fu pubblicizzata con uno slogan tra i più famosi in assoluto: You press the button, we do the rest. Il costo di sviluppo era pari a 10 dollari e comprendeva anche la stampa del negativo nonché l’inserimento della macchina fotografica di un nuovo rullo da 100 esposizioni e la spedizione a casa del cliente, operazione che poteva richiedere da 5 a 10 giorni, a seconda degli agenti atmosferici (come era fedelmente riportato sul libretto delle istruzioni della Box Kodak).
Il 1888 è quindi l’anno della svolta, l’anno della democratizzazione della fotografia, l’anno in cui tutti, ma proprio tutti, possono acquistare un apparecchio fotografico e scattare in totale autonomia quante fotografie volevano.
Mentre nel 1890 venne commercializzato il primo obiettivo anastigmatico (un Protar con f/7,5), nel 1891 Kodak lavorò sui rulli fotografici, cercando di renderli ancora più pratici, al punto da mettere in condizioni chiunque di sostituirli negli apparecchi fotografici (nonostante il prezzo della Box Kodak non fosse proprio bassissimo vendettero tantissimi apparecchi, tanto da avere problemi nello smaltire le richieste di “ricarica”). A tal scopo fu introdotto una sorta di involucro esterno in grado di preservare la pellicola alla luce: a partire da questo momento era quindi possibile sostituire le pellicole alla luce del sole (è il padre dei rullini fotografici che abbiamo maneggiato fino a qualche anno fa).
Nello stesso anno(1891) un fisico francese, Gabriel Jonas Lippmanm, realizzò la prima vera fotografia a colori da singolo scatto (cosa che gli valse addirittura un Nobel per la fisica, conferitogli nel 1908). Lippmann realizzò una lastra a colori utilizzando l’interferenza delle onde dell’immagine con la loro stessa riflessione su uno specchio di mercurio posto dietro l’emulsione sensibile. Ogni raggio di luce catturato impressiona in modo differente la lastra, in funzione della lunghezza d’onda del raggio di luce stesso.
Altra data storica da ricordare è quella del 1895: i fratelli Lumière inventano il cinematografo. La caratteristica più importante del cinematografo, oltre ovviamente alla possibilità di registrare immagini in rapida sequenza, è quella di operare su pellicole dalla dimensione “ridotta”: 35mm. Da questo momento, proprio grazie al cinema, il 35mm diventerà lo standard per la fotografia.
Nel 1900 e nel 1902 vennero commercializzate due macchine fotografiche che hanno fatto la storia della fotografia: rispettivamente Kodak introdusse sul mercato la prima macchina fotografica entry level (la Brownie costava solo 1 dollaro e 15 centesimi una pellicola) e Zeiss la Graflex, una reflex monoobiettivo che per decenni è stata la macchina fotografica utilizzata dai giornalisti americani.
“Kodak Brownie Target Six-20” by John Kratz from Burlington NJ, USA – Kodak Brownie Target Six-20. Licensed under Creative Commons Attribution-Share Alike 2.0 via Wikimedia Commons – http://commons.wikimedia.org/wiki/File:Kodak_Brownie_Target_Six-20.jpg#mediaviewer/File:Kodak_Brownie_Target_Six-20.jpg
Arriviamo al 1904: la data della seconda rivoluzione fotografica. Furono i celeberrimi fratelli Auguste e Louis Lumière (che non inventarono solo il cinematografo!) ad inventare l’autocromo. Da Wikipedia:
Il principio su cui si basava l’autocromia era quello della sintesi additiva spaziale, poiché i colori che apparivano sulla lastra autocroma erano ottenuti grazie a un mosaico di piccolissimi filtri costituiti da granelli di fecola di patate colorati in verde, blu-violetto e arancione. Questi granelli venivano stesi su un supporto di vetro in uno strato sottilissimo, in modo che non si sovrapponesero, ma risultassero giustapposti. Gli interstizi venivano poi riempiti con nerofumo. Sullo strato di granelli di fecola veniva poi stesa un’emulsione fotografica in bianco e nero. La lastra veniva esposta dal lato del supporto e sviluppata. Poiché l’immagine così ottenuta era un negativo a colori complementari, la lastra veniva poi sottoposta a un procedimento d’inversione, in modo da ottenere un’immagine positiva. L’inversione veniva generalmente ottenuta dapprima eliminando le zone esposte dell’emulsione (quelle che dopo lo sviluppo apparivano nere), poi riesponendo la lastra, stavolta dal lato dell’emulsione, in modo da impressionare l’emulsione rimasta, e infine sviluppando di nuovo. L’immagine ottenuta, osservata da vicino, appariva come un quadro puntilista in cui i colori erano ottenuti per sintesi additiva spaziale dai tre primari verde, blu-violetto e arancione.
L’autocromia, nonostante il complicato processo di sviluppo e il costo particolarmente elevato, ebbe un successo enorme (fu usato per la realizzazione di scatti a colori durante la prima guerra mondiale).
Quattro anni dopo, nel 1908, il francese Louis Dufay brevettò il Dufaycolor, un processo fotografico per ottenere immagini a colori. Basato sul processo dei fratelli Lumière, di fatto ne semplificava lo sviluppo, rendendo il procedimento ed i materiali più semplice, economico ed alla portata di un pubblico più vasto.
Nel 1912 è la volta di un’altra invenzione che farà la storia della fotografia, firmata dal tedesco Friedrich Deckle: l’otturatore Compur. Questo particolare otturatore divenne talmente comune da equipaggiare quasi tutti i modelli di macchine fotografiche prodotte fino agli anni cinquanta.
Sempre nel 1912 vennero introdotte sul mercato la Speed Graphic (famosa per essere stata la macchina fotografica dei fotoreporter americani fino agli anni cinquanta) e la Kodak Vest Pocket. Quest’ultimo modello rendeva ancora più semplice l’avvicinamento alla fotografia: il soffietto era infatti reso rigido dalla presenza di stecche in metallo che ne riducevano di fatto l’escursione laterale, velocizzando e non di poco la preparazione alla fotografia. Inutile dire che fu un altro successo straordinario targato Kodak.
Il 1913 vide la reale standardizzazione del 35mm, ad opera dell’ingegnere Oskar Barnack (un dipendente di una piccola azienda fotografica tedesca di nome Leica). Questi lavorò su un modello tascabile di macchina fotografica compatibile con il formato della pellicola cinematografica (35mm per l’appunto), molto più piccolo dei modelli fino a questo punto in vendita. Al fine di ottenere un buon compromesso tra dimensione finale dell’immagine e quella dell’apparecchio, dovette però scartare il formato cinematografico dove le pellicole erano 18x24mm (troppo strette), adottando un più consono 24x36m (in pratica raddoppiò il lato corto e ribaltò la pellicola). In questo modo ottenne due risultati: mantenne simile il formato (passò da 4:3 a 2:3) ma ottenne il doppio dello spazio in larghezza, più che sufficiente per per fotografie. Peccato che la Prima Guerra Mondiale non permise alla Leica di sfruttare immediatamente l’invenzione, rimandata di ben 11 anni.
Nel 1914 la Kodak realizzò una nuova pellicola a colori: verrà poi chiamata Kodachrome nel 1935 e commercializzata l’anno successivo e sarà la pellicola più longeva in assoluto, uscita di produzione nel 2010 quando la fotografia analogica arrivò praticamente al capolinea a causa dell’avvento del digitale.
Durante gli anni della Grande Guerra, poche furono le invenzioni relative alla fotografia ma nacquero tre aziende che in futuro (compresi i giorni nostri) domineranno il mercato: nel 1917 la Nippon Kogaku K.K. (successivamente ribattezzata con il più semplice nome di Nikon), nel 1918 la Olympus e la Panasonic e nel 1919 la Pentax. Anche l’Italia vide la nascita di uno dei più famosi produttori di pellicole fotografiche, la Ferrania (1920, nata con il nome di “Film”).
Anche in Germania, comunque, il mondo della fotografia non rimase a guardare. Carl Zeiss fuse sotto un solo nome (Zeiss Ikon, 1919) parecchie piccole realtà locali (destinate al fallimento a causa della perdita del conflitto mondiale da parte della Germania) e nacque (1920) la Franke & Hidecke (che successivamente cambiò nome in Rollei).
Nel 1925 finalmente la Leica potè dare seguito a quanto inventato dal Barnack e fu immessa sul mercato la prima vera macchina fotografica con pellicola da 35mm, chiamata semplicemente Leica I. Il 1925 fu anche l’anno del debutto del primo flash elettronico.
Gli anni successivi segnarono l’inizio della grande “guerra” tra i produttori tedeschi: nel 1929 venne infatti commercializzata la prima macchina fotografica della Rollei, chiamata Rolleiflex, mentre nel 1932 la Zeiss immise sul mercato la Contax I. Il 1932 fu anche l’anno del suicidio di Mister Kodak: George Eastman infatti si tolse la vita lasciando un semplice, laconico messaggio: ai miei amici: il mio lavoro è compiuto. Perché attendere?
Nel frattempo, ricordiamo come nel 1928 fu fondata la Minolta mentre nel 1932 furono commercializzati i primi obiettivi giapponesi della Nippon Jogaku, chiamati Nikkor.
Anno importante fu anche il 1934: nel paese del Sol Levante vide i natali la Precision Optical Instruments Laboratory (fondata dall’imprenditore Tashima Kazuo) che, con l’aiuto di Nikon, produsse il primo prototipo di fotocamera con telemetro 35mm, chiamato Hansa Kwanon. L’anno successivo, quando questo prototipo vide la luce, fu registrato il marchio Canon (1935).
Nel 1934, oltre che per la Canon, va ricordato anche per l’invenzione ad opera di Edwin H. Land che realizzò un foglio polarizzante, un prodotto alla base della ditta che fonderà nel 1937 chiamata con lo stesso nome di questo foglio: Polaroid. Si tratta di una pellicola di nitrocellulosa (una sorta di plastica, ovviamente trasparente) su cui erano affogati dei cristalli di solfato di iodiochinino. Questi cristalli, aghiformi, sono orientati parallelamente tramite l’uso di un campo magnetico. Il film ottenuto è quindi dicroico: assorbe la luce polarizzata perpendicolare alla direzione d’allineamento dei cristalli. Nascono quindi le lenti polarizzate e qualche anno dopo (intorno al 1948) verrà prodotta anche la prima macchina fotografica Polaroid (dove la pellicola era anche in grado di autosvilupparsi). A proposito, nel 1934 vide i natali anche la giapponese Fuji.
Nel 1936, come accennato precedentemente, venne commercializzata la pellicola a colori Kodachrome sia a 16 che 36mm. Stesso anno ma azienda diversa: Agfa lanciò l’Agfacolor. Ma il 1936 è famoso per un altro oggetto commercializzato a Dresda dalla Ihagee: la Kine-Exakta è la prima macchina Reflex della storia, con mirino a pozzetto (anche se dopo la caduta del muro di Berlino si scoprì come in Russia esisteva già dal 1934 la Sport, una macchina fotografica Reflex che non arrivò mai nei paesi occidentali). Nello stesso anno venne fondata la Ricoh.
Nel 1938 fu fondata la Samsung.
Nel 1937 vide i natali a Milano la ICAF (poi rinominata Bencini). Nel 1938 la Ducati produsse una delle prime macchine fotografiche commerciali ad ottiche intercambiabili (ma in formato ridotto 18x24mm) e nello stesso anno (1938) arrivò sul mercato la Kodak SiperSix-20, caratterizzata a dall’esposizione automatica.
Nel 1940 fu fondata la Mamiya.
Nel 1941 fu fondata la Hasselblad in Svezia. Caratteristica strana, nacque come società di commercio, passata poi alla fotografia durante la seconda guerra mondiale al fine di permettere all’aeronautica svedese di effettuare riprese aeree.
Kodak, nel 1942, commercializzò il proprio negativo a colori (Kodacolor), in ritardo di un anno (era il 1941) rispetto ad Agfa e Ansco.
Nel 1946 la Nippon Kogaku cambia nome e diviene Nikon. Nello stesso anno venne fondata la Sony e la Casio.
Nel 1948 la Fuji presentò il proprio modello di pellicola negativa a colori, un anno prima dell’italiana Ferraniacolor. Nello stesso anno, come anticipato poco sopra, venne prodotta la prima Polaroid Modello 95. Sempre nel 1948 Victor Hasselblad presentò quella che probabilmente è stata la fotocamera reflex medio formato più famosa del mondo: la Hasselblad 1600F. Ed ancora, a Dresda, vide la luce un’altra pietra miliare della fotografia: la prima macchina fotografica con innesto a vite per gli obiettivi, la Praktireflex (ad opera della ditta Praktica). Sempre nel 1948 anche l’Italia fece la sua (piccola) parte: quell’anno fu infatti presentata la prima e l’unica macchina reflex prodotta in italia. Si trattò della Rectaflex, una reflex 35mm con mirino a pentaprisma, otturatore ed innesto a vite. Peccato che passò quasi inosservata
L’anno successivo, il 1949, vide i natali della reflex a telemetro di casa Nikon, chiamata Nikon I. Nello stesso anno Carl Zeiss presentò la Contax S con innesto a vite per gli obiettivi e pentaprisma. Fu proprio questo modello ad offuscare la Rectaflex, supendo appunto il mondo con l’innesto a vite (in occidente) e il pentaprisma. Nello stesso anno vennero fondata anche la Yashica e la Sanyo.
Fino a questo punto, la guerra fotografica fa oriente ed occidente (o meglio tra Germania e Giappone) era tutta a favore della Germania, dove i prodotti delle varie Rollei, Zeiss, Agfa, Exakta e Leitz erano considerati inarrivabili dalle macchine realizzate in Giappone (più spesso considerate delle brutte copie). La storia però cominciò a cambiare (anche se un vero sorpasso lo si ebbe solo negli anni ’70), soprattutto perché nel 1950 la Nikon divenne una sorta di eccellenza nell’ambito delle ottiche: il fotografo americano David D. Duncan infatti ebbe l’idea di montare obiettivi Nikkor su fotocamere Leica. Il risultato fu straordinario in quanto a resa dell’apparecchio ibrido. Sempre nel 1950 vide la luce la più importante (tutt’ora) fiera della fotografia: il Photokina. Nacque inoltre la Tamron.
Nei successivi 8 anni ci furono parecchie migliorie apportate sia alle macchine fotografiche che alle ottiche e alle pellicole ma nessuna vera e propria rivoluzione. Possiamo ricordare per esempio la Exakta Varex (reflex a mirini intercambiabili), la Praktina FX (attacco a baionetta, mirini intercambiabili e spazio per una pellicola lunga 17 metri), la Hasselblad 500C (famosa per essere stata usata dalla NASA durante le sue missioni spaziali), la nascita delle ottiche grandangolari (ad opera del francese Pierre Agnenieux) nonché di una grandissima varietà di pellicole a differenti ISO, in grado di catturare immagini anche in presenza di poca luce.
Il 1959 fu un anno fondamentale per la fotografia. Fu infatti presentata la Nikon F: una reflex professionale dotata di mirini intercambiabili, ottiche intercambiabili con innesto a baionetta Nikkor, motore elettrico per il trascinamento della pellicola ed un prezzo decisamente più basso della concorrenza tedesca. Forte della notorietà delle ottiche Nikkor sul mercato americano, la Nikon F fu più di un successo (tanto che finì anche in un film di Antonioni, Blow Up), tanto da decretare la fine della supremazia europea (o meglio tedesca) nell’ambito Reflex.
Nello stesso anno videro la luce anche il primo zoom ad opera della Voigtländer (si trattava di un 35.83mm con f/2.8), fu realizzata la prima fotografia della faccia nascosta della luna (sonda Lunik III), la Olympus presentò una serie di macchine fotografiche compatte “mezzo formato” (quindi 18x24mm) chiamate Pen, Canon mise in commercio la sua reflex 35mm Canonflex. Fu inoltre fondata la Kyocera.
Nel 1960 vide la luce la R2000, una reflex Canon che si fregiò del titolo di macchina più veloce del mondo: poteva scattare ad una velocità di 1/2000 secondi, un’enormità per quel periodo. Sempre nel 1960 nacque la prima macchina fotografica subacquea (Nikonos).
1961: nacque la Sigma.
Il 1962 vide la prima reflex ad andare nello spazio: si trattava di una Minolta Hi-Matic (per la cronaca fu rimarcata Ansco in quanto prodotto non americano) che accompagnò John H. Glenn.
Nel 1963 la Kodak rilasciò Instamatic, un sistema che semplificava il caricamento dei rullini negli apparecchi (tutt’ora usato, basato su un rullino fotografico inserito in una cartuccia) mentre la giapponese Canon creò un prototipo di macchina fotografica in grado di mettere a fuoco da sola. Ironico pensare che questo prototipo fu considerato senza futuro e messo temporaneamente da parte. Sempre nel 1963 nacque la pellicola a sviluppo immediato Placolor (poi usata, ovviamente, nelle Polaroid). Venne inoltre commercializzata la prima reflex 35mm con esposimetro TTL: la TopCon RE Super (ancora dal Giappone). Nikon (Nikkor) inventò l’obiettivo fisheye e Olympus immise sul mercato la Pen F, una Reflex in grado di produrre immagini mezzo formato su pellicola 35mm sia in modalità manuale che semiautomatica in priorità dei tempi.
Il 1964 fu uno degli ultimi anni in cui i produttori europei riuscirono a proporre qualcosa di innovativo. In particolare la Voigtländer presentò una reflex dotata di flash elettronico incorporato: una soluzione si innovativa ma talmente costosa da far fallire praticamente il prodotto. Nello stesso anno, a titolo di curiosità, fu immessa sul mercato anche la macchina fotografica usata ha Armstrong per fotografare il suolo lunare, la HallelblDC.
L’anno successivo, il 1965, fula volta della Konica Autoreflex (una macchina fotografic con esposizione automatica), nonché della Swinger della Polaroid caratterizzata da una scritta “YES” oppure “NO” che appariva sul mirino in funzione del fatto che la luce fosse o meno sufficiente per scattare la fotografia.
Storia della fotografia: Arriva il digitale
Nel 1969 cominciò la rivoluzione digitale (almeno in senso lato): fu infatti inventato il CCD (Charge Coupled Device) da parte dei fisici Willard S. Boyle e George E. Smith (Bell laboratories).
Il 1970 segnò l’inizio della fine dell’Europa quale produttore di fotocamere: in quest’anno la Rollei chiuse le fabbriche europee e trasferì la produzione a Singapore. L’anno successivo, il 1971, segnò la fine di Carl Zeiss quale produttore di macchine fotografiche, decidendo di concentrarsi unicamente sulle ottiche.
Nel 1972 cominciò a svilupparvi la battaglia Canon/Nikon: la prima presentò la Canon F-1 (la prima vera reflex professionale di casa Canon) mentre la Nikon rispose con la Nikon F2, che andò a bissare il successo della progenitrice F. Nello stesso anno arrivarono anche la Pentax Electro Spotmatic (la prima reflex automatica a priorità di diaframmi, equipaggiata con un un otturatore a controllo elettronico) e la Olympus OM-1 (famosa per essere, in quel periodo, la reflex più compatta mai prodotta). Nello stesso anno anche Kodak immise sul mercato probabilmente il suo prodotto di maggior successo; la Pocket Instamatic, capace di vendere, nel suo ciclo vitale, più di un miliardo di esemplari. Anche Polaroid immise sul mercato una propria reflex, chiamata SX-70 (era pieghevole). Nello stesso anno, la Texas Instruments brevettò una macchina fotografica senza pellicola. Macchina che però non venne mai realizzata.
Nel 1973 fu la volta della Leica gettare più o meno la spugna: fece produrre i propri apparecchi CL (le Compact Leica) dalla giapponese Minolta.
Il 1974 fu l’anno in cui venne realizzato il primo vero sensore CCD (a firma Fairchild Camera and Instrument): si trattava di un sensore 100×100 linee. In contemporanea, in Italia, Lino Manfrotto immise sul mercato il suo primo treppiedi.
1975: Ancora Kodak fece parlare di se. Steven Sasson (morto recentemente) effettuò la prima fotografia digitale della storia (nella foto a destra). Peccato che la Kodak decise di congelare il progetto e di secretare l’invenzione (di cui non si seppe nulla fino al 2005), per paura che la vendita delle pellicole e delle macchine fotografiche analogiche ne potesse risentire (cosa che poi accadde). La macchina fotografica realizzata (sempre nella foto a destra) era dotata di un sensore CCD da 0,01 Megapixel e catturò un’immagine in bianco e nero, impiegando qualcosa come 23 secondi per salvare l’immagine su una cassetta. In contemporanea, la giapponese Yashica fu una delle prime vittime dell’agguerrita competizione nel mercato fotografico, riuscendo a salvarsi dalla bancarotta solo grazie all’intervento delle banche.
Nel 1976 Canon presentò uno dei suoi modelli più famosi, la AE-1 (ne vendette 8 milioni di pezzi), caratterizzata dall’elettronica molto spinta. Sempre nello stesso anno, in America, il ricercatore (ancora in forza alla Kodak) Bryce Bayer inventò l’omonimo filtro RGB, tutt’ora impiegato sui sensori fotografici per permettere la memorizzazione dei colori come percepiti dall’occhio umano (stesse proporzioni). Carl Zeiss, intanto, si accordò con l’agonizzante Yashica per provare a entrare nuovamente nel mercato fotografico, commissionandogli le fotocamere Contax.
Nel 1979 Minolta immise sul mercato la reflex XD-7, una macchina fotografica con esposizione automatica, a priorità di tempo e di diaframmi. Anche Konica fece la sua parte, introducendo la prima compatta totalmente autofocus, la C35AF. E’ l’inizio della fotografia di “massa”, alla portata praticamente di chiunque.
Nel 1980 Nikon presentò la F3 quale risposta alla Canon AE-1, anch’essa ricchissima di elettronica. La Nikon F3 gode tutt’ora di un record: fu prodotta per circa 20 anni, fino al 2000).
Il 1981 è l’anno della seconda rivoluzione fotografica, 98 anni dopo la messa in produzione della prima macchina fotografica (la Box Kodak). Il fondatore della Sony, Akio Morita, presentò la reflex Mavica (Magnetic Video Camera): la prima fotocamera digitale in grado di memorizzare le immagini su di un floppy disk. Nasce la fotografia digitale. Va inoltre ricordato come, in contemporanea, Pentax presentò la reflex ME-F, prima reflex in assoluto a montare un sistema di autofocus interno al corpo macchina (l’obiettivo era motorizzato e il contatto con il corpo macchina, dal punto di vista elettrico, avveniva tramite l’attacco KF), mentre la Ricoh introdusse sul mercato un obiettivo 50mm con incorporato il sistema autofocus sviluppato da Honeywell. Nacque inoltre Logitech.
Il 1982 vide la fine della Agfa quale produttore di apparecchi fotografici (e di proiettori) mentre sia Kodak che Polaroid immisero sul mercato due prodotti-flop: il formato Disc e Polavision rispettivamente, totalmente snobbati dal mercato. In contemporanea venne fondata la Adobe.
Nel 1983 la Yashica fu acquisita dalla Kyocera, chiudendo di fatto la sua attività.
Nel 1985 Minolta introdusse la reflex autofocus 7000, dotata appunto di un autofocus integrato nonché di un avanzamento automatico della pellicola. L’anno prima, per la cronaca, fu inventata la flash memory da Toshiba.
Il 1986 vide porre sul mercato tre modelli dotati di avanzamento meccanizzato della pellicola: la Pentax SFX e la Canon EOS 650. Sempre nel 1986, prese il via la produzione da parte di Pentax della prima reflex dotata di obiettivo Zoom, chiamata Zoom 70 e della prima Canon digitale (la RC-701). In contemporanea, Kodak mise a punto il primo CCD da 1,4 Megapixel.
Nel 1987 fu la volta della prima Nikon con avanzamento della pellicola automatico, la F501. Al contempo, Kodak entrò nel mondo dei video con ben 7 differenti prodotti in grado di coprire tutte le fasce di attività, dalla registrazione alla memorizzazione, dalla trasmissione alla stampa di immagini e video. Contemporaneamente Adobe presentò il suo programma di punta per il video editing, Photoshop.
Nel 1988 Kodak sviluppò ulteriormente il suo CCD, raggiungendo i 4 Megapixel.
Nel 1989 vide la luce la prima compatta digitale, chiamata Ion, firmata Canon.
Nel 1990 Kodak creò il sistema CD Photo e nell’anno successivo immise sul mercato la prima reflex totalmente digitale, chiamata DCS-100. La DCS-100 però, non è una vera macchina Kodak: la ditta americana infatti modificò una Nikon F3 integrando su di esso un motore MD-4, un sensore da 1,3Mpx, un hard disk esterno ed un display da 4 pollici.
Nel 1991 la Kodak immise sul mercato la DSC-200 (modello è basato sulla Nikon F801).
Nel 1992 venne presentata la prima reflex subacquea a firma Nikon, chiamata Nikonos RS e nasce la lomografia (grazie al rinvenimento di una vecchia Lomo, una macchina russa, non perfettamente impermeabile alla luce esterna). In contemporanea Sigma lanciò la sua prima reflex digitale, la SA300 mentre la Svizzera Logitech lanciò una compatta digitale che ebbe un grande successo, grazie anche al prezzo molto competitivo.
Nel 1994 Kodak abbandonò Nikon per allearsi con Canon. Da questo connubio videro la luce ben quattro fotocamere basate sulla EOS-1N, dotate di elettronica (e sensore) Kodak. Fu inoltre presentata a firma Sandisk la prima Compact Flash. Samsung sviluppò la prima fotocamera con zoom 4x.
1995: Nikon, chiuso il rapporto con Kodak, si alleò con Fuji e presentarono la Nikon E2 e la Nikon E2S, la fotocamera reflex digitale più veloce del mondo, capace di registrare fino a 7 scatti per secondo.
Il 1996 fu l’anno del grande flop firmato da 5 produttori, ovvero Kodak, Minolta, Canon, Nikon e Fuji: il sistema APS (Advanced Photo System). Il sistema APS nacque come “successore” del 35mm analogico e si basava su dei negativi che si interfacciavano da una parte con la fotocamera (magneticamente) e dall’altra con il laboratorio di stampa. Il vantaggio dell’APS era la possibilità di ottenere 3 differenti formati di stampa dallo stesso negativo, purtroppo fu immesso sul mercato nel momento peggiore, ovvero quando il digitale stava prepotentemente prendendo il sopravvento sull’analogico. In contemporanea, proprio a sottolineare la problematica sopravvivenza dell’analogico, Casio immise sul mercato la QV-10, la prima fotocamera compatta dotata di schermo LCD: era ora possibile vedere immediatamente le fotografie scattate, la fotografia è sempre più vicino alle grandi masse. Nello stesso anno anche Leica produsse la prima reflex digitale (26 megapixel) anche se, per vedere una Leica digitale a telemetro, bisognerà aspettare il 2006.
Gli anni successivi furono un inseguirsi sempre più frenetico tra i vari produttori fotografici: nel 1997 Nikon produsse la sua prima compatta digitale (Coolpix 100) e Canon la sua prima PowerShot, mentre Pentax uscì sul mercato con la prima reflex medio formato analogica in assoluto, la 645N.
Nel 1999 Nikon presentò la Reflex D1, una pietra miliare nel mondo della fotografia. Si trattava di una reflex digitale professionale disponibile a circa la metà del prezzo delle reflex concorrenti. Inutile dire che ebbe un successo enorme.
Storia della fotografia: Dal 2000 ad oggi
Nel 2001, a causa dell’avvento del digitale, uno dei grandi nomi della fotografia analogica si avviò alla bancarotta: Polaroid. Nello stesso anno fu introdotta sul mercato la serie Lumix (dotata di ottiche Leica) di Panasonic.
L’anno successivo, il 2002, segnò un altro passo verso la massificazione della fotografia digitale. Nokia presentò infatti il primo telefono cellulare con fotocamaera integrato, il 7650. In parallelo, la giapponese Contax immise sul mercato la Contax N, la prima reflex digitale dotata di sensore 24×36.
Nel 2003 fu Olympus a mettere in produzione la prima reflex digitale in formato quattro terzi, ovvero la E-1. Anche Canon, seppur con 4 anni di ritardo, immise sul mercato una Reflex dal costo molto ridotto (sotto i 1000 dollari), la EOS 300D. Nel 2003 le vendite di fotocamere digitali superò quelle delle fotocamere analogiche.
2004: Nikon produsse la D70, Canon la EOS 1Ds Mark II (dotata di sensore 24x36mm con ben 16 megapixel).
Il 2005 vide l’alleanza tra Olympus e Panasonic al fine di sviluppare ulteriormente il promettente formato quattro terzi che, come scritto, fu lanciato da Olympus due anni prima. In contemporanea, Nikon realizzò la prima fotocamera compatta (Coolpix P1) dotata di connessione wi-fi integrata.
Il 2006 è l’anno della massificazione totale: il mondo della fotografia reflex viene assaltato dai produttori di elettronica generalisti. Panasonic realizzò la Lumix L1 (su progetto Olympus), Sony produsse la Alpha 100 (su progetto Minolta), Samsung immise sul mercato la GX-1s (su progetto Pentax)
Nell’anno successivo, il 2007, Nikon presentò la sua prima reflex pieno formato (24×36), ovvero la D3.
Nel 2008 la Nikon commercializzò la D90, la prima reflex in grado di registrare video oltre che scattare fotografie. Canon arrivò sul mercato di lì a poco, con la 5D Mark II, anch’essa in grado di registrare video. Panasonic immise sul mercato la prima vera “mirrorless”, ovvero una quattro terzi a ottiche intercambiabili, chiamata Lumix G1.
Nel 2009 (e nell’anno successivo) Panasonic inglobò Sanyo, mentre praticamente tutti i produttori provarono ad entrare nel mondo del micro quattro terzi ad ottiche intercambiabili: videro la luce Nikon 1, Canon EOS M, Pentax Q, Olympus Pen, Fuji X-Pro1, Samsung NX, Sony NEX. In contemporanea veniva interrotta la produzione della storica pellicola Kodakrome. Fine dell’analogico.
2011: Ricoh acquisì Pentax.
Il 2012 è inoltre ricordato come la reale fine della fotografia analogica: in quell’anno infatti Kodak arrivò al fallimento. Oggi, venduto tutto ciò che riguarda la fotografia in quanto apparecchi fotografici, si concentra su chioschi per stampa digitale.
Nel 2013 anche Hasselblad mette fine all’avventura analogica, terminando la produzione della medio formato Hasselblad 503CW e dedicandosi interamente alle medio formato digitali.
Ad oggi, esistono pochissimi modelli analogici ancora in produzione ed in particolare, per il Medio formato, le sole Mamiya RZ67 Pro IID (reflex modulare a fuoco manuale), 7 II (a telemetro) e la 645 AF III D (reflex modulare autofocus). Anche nell’ambito del tradizionale formato 35mm esistono due apparecchi in produzione, ovvero la Canon EOS 1V e la Nikon F6.
Tutto il resto è divenuto storia passata eccetto per un particolare: la presenza di fotografi estimatori dell’analogico, l’attualità della lomografia nonché la presenza ancora di parecchie macchine analogiche in circolazione, ha creato un problema di disponibilità di pellicola analogica. Al punto tale da far tornare a produrre pellicola (anche se in quantità minori) dei produttori storici, quali l’italiana Ferrania, rifondata proprio nel suo vecchio stabilimento e che verso il 2015 dovrebbe immettere sul mercato i formati 35mm e 120mm con differenti sensibilità ISO: 100, 400, 640T, 800 e 3200 ISO, senza dimenticare la pellicola Super 8 da 64 ISO (tutte basate sulla Scotch Chrome 100).