Intervista a Sergio Petrelli
Aggiornamento: 18 gen 2021
In oltre quarant'anni di attività Sergio Petrelli ha lavorato fra Italia, Svizzera, Regno Unito, USA e Canada. Qualche mese fa lo abbiamo incontrato in un rinomato bar del quartiere Prati per una chiacchierata fra amici. Ci ha descritto il mondo della fotografia commerciale italiana ed internazionale negli anni '80 e '90 attraverso il racconto la sua carriera.
Grazie per il tempo che ci stai dedicando Sergio. Ho notato che spesso musica e fotografia sono due mondi complementari, chi si occupa dell'una a volte si interessa anche dell'altra, come nel tuo caso. Tu sei partito dalla musica per arrivare alla fotografia.
Si, suonavo in vari gruppi ma era un mondo troppo competitivo in Italia, e alla fine ho scelto di dedicarmi alla fotografia, salvo poi scoprire alla fine che era un mondo altrettanto competitivo. Mi iscrissi allo IED (Istituto Europeo del Design) nel 1974 e lì conobbi Guido Vanzetti, un grande fotografo che è stato mio maestro in tutto. Senza di lui non avrei intrapreso questa strada.
Roma mi stava stretta. Negli anni ’80 eravamo in tre o quattro persone a dividerci il mercato delle agenzie più importanti, ma i rapporti con la clientela erano problematici e c’era poco rispetto per il lavoro svolto, come spesso accade per le professioni creative. L’accredito della retribuzione avveniva a 180 giorni, dopo sei mesi, ed era considerata una cosa del tutto normale!
Nel 1985 decisi così di abbandonare Roma (rinunciando ad una serie di fatture da incassare) e di trasferirmi con mia moglie a Toronto. Il Canada era tutto un’altro mondo, molto più meritocratico. Bastava saper dimostrare le proprie capacità e le porte si aprivano all’istante. Fu una bellissima esperienza, mi consentì di imparare seriamente l’inglese e di lavorare con le succursali canadesi delle agenzie con cui collaboravo già a Roma. Terminata la parentesi canadese passai un periodo a Londra, per tornare poi a Roma nel 1996. Aprii uno studio a Roma in Via Crescenzio ma la situazione non era cambiata di molto. Erano gli anni in cui si cominciava a parlare di fotografia digitale, e a lavorare con il computer.
Dopo il ritorno a Roma venne l’esperienza Svizzera, che fu interessante anche dal punto di vista professionale. In Canada e in Svizzera gli standard qualitativi ed i rapporti di lavoro sono molto differenti da quelli a cui siamo abituati. Qui si tende a mischiare l’amicizia con la professione e a ripagare con una pacca sulla spalla. All’estero la fotografia ha la dignità che merita, e non ci si sognerebbe mai di svalutare il lavoro altrui.
In Svizzera ho avuto la fortuna di entrare in contatto con un grande personaggio dell’orologeria, Osvaldo Patrizzi, fondatore di Antiquorum (nota casa d’aste online) che in quel periodo stava avviando una nuova attività ed aveva bisogno di un fotografo e di qualcuno che gli seguisse gli aspetti prettamente inerenti la grafica. Accettai di ricoprire entrambi i ruoli, occupandomi di tutto, dalla fase di ripresa all’impaginazione dei cataloghi. Mi occupavo anche del controllo pre-press.
La società aveva base a Ginevra ma aveva anche una sede a Milano ed una a New York, dove si svolgevano le aste, per cui in quel periodo ho avuto modo di viaggiare molto. Le foto si scattavano a New York ed il catalogo si impaginava a Ginevra, a ciclo continuo, e terminato un catalogo si iniziava subito a lavorare al successivo. E’ stato un periodo bellissimo, in cui ho scoperto anche i vantaggi del lavoro dipendente rispetto alla libera professione. I viaggi erano spesati e non avevo più il pensiero di dover cercare nuovi lavori o di inseguire i clienti per chiedere il saldo delle fatture. Il livello qualitativo delle immagini richieste era sempre molto elevato, i collezionisti di orologi sono persone interessanti e piuttosto esigenti riguardo la qualità.
C’è una esperienza professionale in particolare che ti piacerebbe raccontarci?
Si. Negli anni ’80 prima di partire per il Canada fui contattato dai fondatori della FideurArt per realizzare una copia anastatica in grandezza naturale di uno dei corani più belli del mondo, conservato al museo Topkapi di Istanbul. All’epoca c’erano già parecchi studi a Roma specializzati in lavori di questo genere. Durante il colloquio i due responsabili della FideurArt mi dissero “ci sono un sacco di problemi legati alla riproduzione di questo libro” e io candidamente risposi “beh, i problemi si risolvono, sono fatti per essere risolti”. Parliamo ovviamente di un’epoca pre-digitale, e a distanza di tempo mi confessarono che quella frase fu quella che mi permise di ottenere il lavoro. Era la frase giusta al momento giusto, quella che speravano di sentirsi dire. Il fotografo è essenzialmente un risolutore di problemi.
Cosa è la valigetta che hai portato con te oggi?
La valigetta che abbiamo qui di fronte è il mio book fotografico, l’antesignano del sito web.
Come potrai vedere ho spaziato molto nel corso della mia carriera. Non mi ritengo un fotografo ritrattista, ed ho scattato molto still life. E' capitato a volte che gli art director mi chiedessero in quale categoria desideravo essere inquadrato, ma io non ho mai gradito molto questa artificiosa suddivisione in categorie del mondo professionale. Ritengo che il nostro lavoro consista nel conoscere tutte le tecniche fotografiche e nel saperle applicare alla situazione. Gli orologi ad esempio sono estremamente difficili da fotografare bene, perché sono pieni di riflessi, e bisogna avere una profonda conoscenza della tecnica e delle attrezzature per trovare la soluzione giusta rispetto alla circostanza e al soggetto della ripresa.
Ultimamente ho scelto di non lavorare più per gli altri ma per me stesso, dedicandomi alle mie ricerche fotografiche più o meno artistiche. La soddisfazione è maggiore perché non devo dar conto a nessuno. Un art director svizzero un tempo mi diede un consiglio: “le fotografie commerciali le possono fare tutti, son tutte simili e sono legate ad un prezzo di mercato. Il valore che si da all’arte invece esula dalle logiche del mercato”.
Ci potresti parlare più approfonditamente del tuo mentore Guido Vanzetti?
Su Guido è stata realizzata recentemente una mostra all’Istituto Superiore di Fotografia [https://www.iodonna.it/attualita/eventi-e-mostre/2020/01/19/roma-una-mostra-guido-vanzetti-fotografo-inventore-della-computer-grafica/]. Era una persona con una visione avanti sui tempi, purtroppo è venuto a mancare presto, ma è uno di quei personaggi che insieme ad un suo grandissimo amico e collaboratore, Ferro Piludu, creatore del Gruppo Artigiano Ricerche Visive, realizzarono cose all’avanguardia per i tempi. Negli anni in cui mi decisi di trasferirmi in Canada guido stava studiando quella che sarebbe diventata la computergrafica, creando fra le altre cose il video Pixnocchio che è stato proiettato alla mostra. Con Ferro e Guido realizzai la sigla di Lunedifilm, per la Rai. Loro fecero tutti i disegni a china in bianco e nero per l’animazione, ed io mi occupai di fotografare tutti i bozzetti a registro con una serie di pellicole Kodalite ad alto contrasto, trasparenti e nere, che furono colorate da loro con le Ecoline (si tratta particolari inchiostri, spesso chiamati acquerelli liquidi, ma che in realtà sono composti da coloranti e non da pigmenti come i classici acquerelli, NDR). Poi tutto fu montato come un normale cartone animato. All’epoca il fotografo faceva un po’ di tutto.
Cosa consiglieresti a chi sta muovendo i primi passi nel mondo della fotografia?
Ho insegnato fotografia tanti anni, ed amavo dire ai miei ragazzi che il lavoro non è sempre tutto rose e fiori. Il primo cliente che mi capitò quando mi separai professionalmente da Guido una azienda di Civitacastellana che produceva bidet, wc e lavabi, per cui posso dire che il mio primo lavoro remunerato è stato la realizzazione di un catalogo di sanitari.
Il professionista, soprattutto se alle prime armi, non rifiuta mai il lavoro. Il lavoro è sacro, e bisogna soddisfare sempre le richieste della clientela. Tutto ha necessità di essere fotografato, anche un sanitario, e al tempo lo si faceva usando le lastre 4x5 ed una illuminazione uniforme ottenuta con due bank laterali e relativi ombrelli.
Non sempre capita di fotografare importanti gioielli come avvenne anni dopo, quando mi chiesero di fotografare il De Bethune DB28 (un orologio che può arrivare a costare oltre 100mila euro, NDR), o per Asprey quando mi chiesero di fotografare dei gioielli che dovevano essere spediti da Londra agli Emirati Arabi.
Potresti raccontarci brevemente della tua carriera musicale?
Dei gruppi di cui ho fatto parte quello a cui sono più legato probabilmente è La Balena. Quando arrivai a Roma nel 1970 già suonavo da diversi anni. Venivo da Padova, la "città di Sant'Antonio", dove non c'erano locali notturni, così andavamo a suonare ad Abano Terme a nove chilometri di distanza. Appena arrivato a Roma cominciai a spargere la voce alla ricerca di persone con cui suonare. All'epoca facevo la terza liceo.
Tutti i membri del gruppo che costituimmo sono poi diventati importanti, al basso c'era Massimo Morriconi che poi è diventato il contrabbassista di Mina (suona con Renato Sellani, grande jazzista, un amico a cui ho scattato molte foto) e alla batteria c'era Alberto Botta, che poi ha suonato con Renzo Arbore a Quelli della Notte.
Prima di trasferirmi in Canada ho lavorato un anno con Alan Sorrenti. Ci giunse voce che Alan cercava persone con cui suonare e lo contattammo; del mio gruppo di origine presero solamente me ed il tastierista, lasciando fuori la sezione ritmica (batteria e basso). Ci fecero un contratto di un anno e suonammo una ventina di serate, prima in Germania e poi in Sicilia. Alloggiavamo in un albergo sulla costa, la mattina andavamo al mare e alle quattro veniva a prenderci un autista per portarci direttamente sul palco in varie località. Non dovevamo montare e smontare le attrezzature come accade normalmente, per cui era tutto più divertente, ma quella del musicista è comunque una vita anche molto sfiancante e poco remunerata. Mi manca un po' l'emozione dello stare su un palco e il potermi esprimere attraverso la musica. In qualche modo sto cercando di ritrovare quella libertà di espressione attraverso i miei ultimi lavori fotografici, nelle serie fine art.
Un tempo c'erano molte più persone che si incontravano per suonare insieme dal vivo, oggi grazie ad internet e alla musica digitale ci si incontra di meno ma ci sono molte possibilità in più per imparare e per mostrare il proprio lavoro. In giro ci sono e dei mostri di bravura, ma è esattamente come in fotografia: si può essere bravissimi dal punto di vista tecnico senza riuscire a trasmettere i sentimenti.
Faccio spesso l'esempio di Pino Daniele (mio compaesano): lui agli esordi non era un virtuoso della chitarra, ma ha saputo trasmettere la sua anima e quella di Napoli attraverso lo strumento.
La fotografia ti ha aperto delle strade o opportunità inaspettate?
Certo, posso dire che la fotografia mi ha concesso di vivere bene e mi ha dato grandi soddisfazioni. Mi ha portato dall'altra parte del mondo, in USA e in Canada, dove ho imparato a lavorare con alti standard di rigore professionale ed ho avuto modo di mettere a frutto la creatività partenopea che avevo portato con me dall'Italia.
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