Intervista a Vieri Bottazzini, fotografo di paesaggio che sa come padroneggiare la luce
Aggiornamento: 28 set 2020

Benvenuto Vieri Bottazzini sulle pagine di Fotografiamo.net e grazie per aver accettato un’intervista sul nostro blog di fotografia. Fotografo di paesaggio, insegnante di fotografia e organizzatore di viaggi e workshop, puoi dirci se in te è nato prima l’amore per la natura o quello per la fotografia? Spesso sono due cose che vanno di pari passo.
Grazie a voi per l’invito, è sempre un piacere collaborare con iniziative come la vostra. Sì, anch’io amo da sempre sia la natura che la fotografia, penso che non potrei fotografare il paesaggio se così non fosse. Venendo a quale dei due amori nasce prima, devo confessare che ci sono mie foto da bambino nelle quali gioco con apparecchiature fotografiche e ho cominciato a scattare intorno ai 10 anni. Quindi, forse ho messo in pratica prima la passione per la fotografia…
Oggi si fa un gran parlare di ambiente, eppure sembra che spesso si tratti solo di chiacchiere alle quali non seguano poi azioni concrete da parte di chi dovrebbe prendere le decisioni, in particolare dalla politica. Pensi che i fotografi di paesaggio possano dare il loro contributo alla causa?
Certo! Chiaramente, il problema del rapporto dell’uomo con l’ambiente è estremamente serio, e non penso certo di poter risolverlo io da solo come fotografo di paesaggio. Ci sono però diverse cose che posso fare, sia a livello individuale sia usando quella poca influenza che ho, cose che invito tutti gli appassionati a fare e diffondere a propria volta. In primo luogo, invito tutti a non peggiorare le cose: questo vuol dire rispettare l’ambiente che “usiamo” come nostro soggetto, come campo d’azione e come luogo di lavoro. In particolare, invito a non affollare le solite locations ultra-note ma a uscire dal visto e stravisto per esplorarne di nuove, invito a non lasciare sporcizia in giro, ricordo che non si deve andare dove è vietato, camminare fuori dai sentieri, in habitat fragili, e così via. Per me, chi non rispetta un divieto non è mai più furbo degli altri, è sempre solo più criminale.
Venendo ora a quello che possiamo fare per migliorare le cose, personalmente sovvenziono la piantumazione di 250 alberi per ogni iscritto ad ogni mio Workshop, per compensare l’impatto del carbonio da loro sostenuto per partecipare, e durante i miei Workshops e i miei viaggi riciclo tutto e mi comporto in maniera sostenibile. E così via… piccole cose forse, ma che possono fare la differenza. Questo nel mio piccolo, ovviamente. Poi, pensando più in grande, credo che con il nostro lavoro di paesaggisti possiamo sensibilizzare il pubblico sulla bellezza dell’ambiente che ci circonda, stimolando una coscienza civica in questo senso. Diffondere la bellezza del pianeta certamente aiuta a incentivarne il rispetto. Detto questo, tutto ciò non può sopperire alle mancanze della politica, che dobbiamo continuamente spronare affinché faccia il proprio lavoro. Solo a livello politico si può davvero fare la differenza, ma la pressione popolare può certamente smuovere acque che continuerebbero altrimenti a rimanere stagnanti.

Essere originali in questo settore non è mai facile, pensi che ci sia ancora spazio per essere innovativi in questo campo?
Assolutamente sì. Io approccio la fotografia di paesaggio – e la insegno - come interpretazione di un luogo e un momento dato, e come tale credo che ogni foto sia unica e irripetibile per definizione. Per poter fare ciò, bisogna affrontare ogni luogo come fosse nuovo, mai visto e mai fotografato né da noi, né da altri. Questo non è sempre facile, o almeno non lo è per tutti, ma è certamente possibile. Naturalmente, per poter creare un’interpretazione originale, interessante e personale è necessaria una padronanza tecnica assoluta, e soprattutto uno studio incessante a livello artistico.
Capita di vedere fotoamatori che tornano in posti già fotografati da grandi fotografi per tentare di rifare la stessa fotografia che hanno ammirato su internet, di solito senza riuscire a portare a casa un gran risultato. Cosa consiglieresti a queste persone?
Quando si inizia, può essere utile a livello di studio cercare di riprodurre fotografie altrui, allo stesso modo in cui nelle scuole d’arte si riproducono dipinti famosi, con lo scopo di imparare tecniche di ripresa, di composizione e di post-produzione imitando gli esempi dei maestri. Detto questo, allo stesso modo in cui a nessuno in una scuola d’arte verrebbe mai in mente di sentirsi davvero Raffaello o Van Gogh solo perché ne ha copiato più o meno bene un quadro o due, nessun fotoamatore dovrebbe sentirsi “arrivato” solo perché è riuscito a copiare più o meno bene la foto di un altro – e tantomeno puntare a quello come unico “modus operandi” quando vanno in giro a fotografare. Mentre nessun pittore che io conosca pensa che sia neppure lontanamente sensato copiare quadri altrui per tutta la vita, come hai notato anche tu quando invece si tratta di fotografia questa purtroppo inspiegabilmente è una cosa che fanno in molti. La cosa veramente triste e preoccupante per la salute del movimento fotografico è che molti di questi sono gli stessi che poi vanno a incrementare il numero dei cosiddetti “photographers” in giro per i social, e il problema diventa poi davvero serio quando costoro cominciano anche a tenere Workshops e corsi. Non riesco davvero a immaginare cosa possano insegnare…
Spesso il fotografo di paesaggio sente fare alle sue foto commenti del tipo: “che bel posto” oppure “che fortuna hai avuto a trovare quelle condizioni”. Sembra quasi che la pervicacia nel tornare in un posto più volte per trovare le condizioni migliori, lo studio preliminare o le capacità tecniche non venissero considerate dal pubblico, tu che ne pensi di questo aspetto? Fa semplicemente parte del gioco?
Purtroppo, chi non fa questo mestiere seriamente non ha idea della mole di lavoro che c’è dietro a una fotografia di successo, e può fare commenti del genere anche in perfetta buona fede: l’ignoranza è sempre una brutta consigliera. Poi, certo, c’è anche chi invece esprime commenti di questo tipo in malafede, o per invidia, o per sminuire una bella foto che lui non è riuscito a fare, e così via. Che siano in buona fede o meno, sinceramente, questi commenti non mi interessano molto. Come diceva Dante, “Non ragioniam di lor, ma guarda e passa”.

Quanto è importante per te la preparazione prima di arrivare sul luogo che poi andrai a fotografare?
È fondamentale, ma nulla può sostituire l’esperienza sul campo. Non importa quanto uno sia preparato, le condizioni del “mondo vero”, per così dire, sono sempre diverse e inaspettate. E proprio questa imprevedibilità è il bello del nostro mestiere!
Mi capita spesso di parlare con ragazzi giovani appassionati di fotografia e dico sempre loro che la cosa più importante è che la fotografia, anche quando si ha la fortuna di farla diventare un lavoro, rimanga la prima passione. Insomma la gioia nel fotografare deve venire prima di ogni altro aspetto. Ti ritrovi in queste parole? Tu ti diverti ancora dopo tanti anni nel fare le fotografie che scatti?
Assolutamente sì, mi ci ritrovo in pieno e non potrei fare questo lavoro se non mi divertissi. Nel mio caso, non solo ho la fortuna di divertirmi come il primo giorno, ma di divertirmi ogni giorno di più!

Usi attrezzatura Hasselblad, come mai questa scelta?
Beh, perché penso che Hasselblad X1D sia il sistema migliore oggi sul mercato per la fotografia di paesaggio, o almeno per il tipo di fotografia di paesaggio che faccio io. Personalmente, ho sempre amato il medio formato, sin dai tempi della pellicola. Oggi, trovo che anche nell’era digitale il medio formato offra delle qualità che il cosiddetto full-frame 35mm non offre, in termini di transizione dei toni di colore, di gamma dinamica, di profondità dei colori e delle ombre, solo per menzionare alcune caratteristiche. Nei miei anni di fotografia digitale, intervallandoli con vari sistemi 35mm ho sperimentato con moltissimi sistemi medio formato, tra cui PhaseOne, Leaf, Pentax 645D e 645Z. Pur producendo files splendidi, nessuno di questi però offriva la combinazione che cercavo tra qualità dell’immagine, disponibilità di ottiche (soprattutto nei grandangolari, che amo molto per il mio lavoro), semplicità d’uso (odio le fotocamere con duemila bottoni inutili) e soprattutto portabilità e leggerezza, unite però a tropicalizzazione e robustezza.
Sono così passato a Leica per tre anni, durante i quali sono anche stato Leica Ambassador e docente Leica Akademie Italy, usando principalmente Leica SL affiancata per qualche tempo anche da una Leica S (Typ 007), una ottima macchina medio formato purtroppo totalmente inadatta al mio tipo di lavoro nel paesaggio. A fine 2018 ho deciso di interrompere la mia collaborazione con Leica, per ragioni nelle quali naturalmente non intendo entrare. A questo punto, avrei potuto naturalmente continuare a utilizzare le mie SL, ma l’innovazione introdotta da FujiFilm GFX e soprattutto Hasselblad X1D nel mondo del medio formato mi hanno convinto a tornare alla superiore qualità dell’immagine che solo il medio formato offre.
A questo punto, ho avuto la grande fortuna di poter scegliere tra FujiFilm GFX e Hasselblad X1D, due sistemi rivoluzionari nel mondo del medio formato per concezione, entrambi nativi digitali, entrambi mirrorless (che per me è fondamentale) e entrambi perfettamente integrati. La mia scelta è caduta su Hasselblad: per le ottiche spettacolari, per la loro offerta del grandangolo più “wide” nel mondo medio formato, per una qualità dell’immagine impressionante, per un’interfaccia utente essenziale e priva di inutili complicazioni, e perché offre tutto questo unito alla massima portabilità, con il sistema più piccolo e leggero sul mercato del medio formato (e addirittura più piccolo e leggero di moltissimi sistemi FF non mirrorless!) pur essendo indistruttibile e tropicalizzato sia nelle fotocamere che negli obiettivi.

Ami il lavoro di postproduzione oppure preferisci toccare il meno possibile la fotografie?
Per prima cosa, dobbiamo ricordare sempre a chi ci chiede “ma è vera o è Photoshoppata” che la post-produzione è oggi necessaria per estrarre il massimo del potenziale da un file RAW allo stesso modo di come lo erano sviluppo e stampa ai tempi della pellicola. Certamente mi piace molto vedere le mie foto prendere forma sul mio schermo, realizzando la visione che avevo al momento dello scatto, e adoro vederle passare dallo stato di pura potenzialità, qual è il negativo digitale, allo stato di immagine finita e pronta per tornare al mondo. Detto questo, amando molto di più stare in giro a fotografare che non essere seduto di fronte a un computer, ho sviluppato sia per me personalmente che per insegnarlo durante i miei Workshop un flusso di lavoro il più semplice, lineare e replicabile possibile. L’idea che lo sostiene è che più sono efficace, efficiente e produttivo durante le mie sessioni di post-produzione, più tempo posso passare sul campo a fotografare. Da un punto di vista “filosofico”, poi, ho deciso di porre dei limiti a quello che sono disposto a fare alle mie foto: pur rispettando chiunque segua strade diverse, nel mio portfolio non vedrai mai foto con modifiche quali cieli incollati da altre foto (vedi le vie lattee su Piazza San Marco a Venezia o simili), con trasformazioni esagerate di elementi (vedi montagne strizzate o allargate, o riflessi impossibili), e così via. Non vedrai mai nemmeno HDR spinto, che trovo piuttosto orribile, né luce che sfida tutte le leggi fisiche e non si sa bene da dove arrivi (vedi i classici fiori in primo piano illuminati in modo fintissimo con maschere di luminosità mentre il resto della foto è controsole), e così via.
Ho visto parecchie tue foto in bianco e nero, cha approccio usi? In fase di scatto pensi già a come risulterà una determinata foto quando la virerai in bianco e nero?
Si, sempre. Per me una fotografia o è a colori, o è in bianco e nero. Non sviluppo mai la stessa immagine in entrambe le versioni: pur rispettando chi la pensa in modo diverso, per me è un problema che semplicemente non si pone nemmeno.