Centro della Via Lattea: colori falsi, verità vere
- Alessandro Fabiani

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Dal bulge in Sagittario/Scorpione alla cartografia infrarossa, perché ciò che l’occhio non vede è spesso la parte più onesta dell’immagine.
Prima di parlare di colori tradotti e di pixel che la nostra retina non capirebbe, vale la pena mettere a fuoco il soggetto con un po’ di storia sulle spalle. Il Centro della Via Lattea abita tra Sagittario e Scorpione, a circa ventiseimila anni luce, ed è sepolto sotto una coltre di polveri che nel visibile chiude la serranda. Lì c’è il rigonfiamento stellare, il bulge, con popolazioni antiche, una barra che incanala gas verso il nucleo e, nel mezzo, il capo officina: Sagittarius A*, un buco nero supermassiccio con qualcosa come quattro milioni di masse solari. Noi il centro non lo vediamo a occhio proprio perché la polvere assorbe la luce visibile, come tende spesse tirate davanti alle finestre, ma nell’infrarosso e in radio quelle tende si fanno più sottili e cominciamo a leggere la piantina dell’appartamento.
Questa consapevolezza non nasce ieri. A cavallo tra Ottocento e Novecento, Edward Emerson Barnard fotografava la Via Lattea con lastre e obiettivi da ritratto, lunghissime esposizioni, niente colori, tutto grana d’argento e pazienza. Quelle immagini hanno messo in carta le “fenditure” scure, catalogandole una per una, B92, B93, e via così, e hanno insegnato che la nostra Galassia non è un vago latteo, ma una struttura con nervature e nodi. Poco dopo, la radio cominciò a spifferare segreti: prima i disturbi galattici intercettati da Jansky negli anni Trenta, poi la sorgente in Sagittario, fino all’identificazione del cuore vero e proprio, quel puntino testardo che in seguito battezzeremo Sagittarius A*. Più avanti arrivò l’infrarosso a larga scala, prima con i satelliti pionieri, poi con grandi survey come 2MASS, con Spitzer che cucì mosaici dettagliati, e oggi con VISTA da terra e il James Webb in orbita. In parallelo, gruppi di astronomi hanno inseguito per anni l’orbita di stelle che girano strettissime attorno al centro, misurandole nel vicino infrarosso fino a chiudere la prova regina, il buco nero c’è, pesa parecchio e non ha senso discutere con la bilancia.
Edward Emerson Barnard
Nel frattempo noi fotografi ci siamo abituati a una doppia alfabetizzazione. Da una parte la tradizione delle lastre, delle emulsioni, dei campi larghi in bianco e nero che raccontano forma e densità; dall’altra la rivoluzione degli infrarossi e delle lunghezze d’onda “altre”, dove il colore non è un souvenir ma una legenda. E a casa, mentre il cielo vero rimane duro da leggere, sono arrivati telefoni che in modalità notte accumulano scatti, stirano il rumore, lucidano il contrasto e, se gli giri le spalle, inventano stelle come un prestigiatore che trova monetine dietro l’orecchio. Utile per ricordare una cena, meno per capire una galassia.
Fatte le presentazioni, possiamo riprendere il filo del discorso, perché è qui che si gioca il nodo tra realtà visiva e immagine astrofotografica.
Il Centro della Via Lattea, quello vero, abita tra Sagittario e Scorpione, circa ventiseimila anni luce da qui, nascosto sotto una coperta spessa di polveri che nel visibile fanno muro, mentre nell’infrarosso si aprono come tende tirate di lato. Lì dentro, nel bulge, c’è l’oggetto che tiene la scena, un buco nero supermassiccio soprannominato Sagittarius A*, massa intorno a quattro milioni di Soli, sufficienti a orchestrare orbite serrate e capricci luminosi. La distanza e la polvere spiegano già una cosa semplice, a occhio nudo non vediamo il centro, non con i nostri coni pigri e le nostre notti cittadine, per quello servono lunghezze d’onda più lunghe, infrarosso e radio, strumenti pazienti e molta matematica. Non è un complotto, è ottica, e l’ottica è brava a smontarci le certezze con garbo chirurgico.
Se ci affacciassimo davvero lì fuori come nei vecchi telefilm, niente cieli al neon e tappeti di caramelle fosforescenti, vedremmo scuro, quasi monocromatico, perché la nostra visione notturna viaggia con i bastoncelli, ricettori che in luce bassa vedono bene l’intensità e male il colore. Il romanticismo fa di tutto per convincerci del contrario, ma al buio profondo l’occhio umano perde la tavolozza e tiene la trama, funziona così, l’universo non ha firmato il contratto con la saturazione.
La differenza tra realtà visiva e immagini che amiamo condividere nasce qui, la camera scientifica lavora dove noi non vediamo, registra infrarosso vicino e medio, banda submillimetrica, radio, poi a terra qualcuno traduce quei segnali in colori che capiamo, assegnando alle varie lunghezze d’onda tinte coerenti, blu per le stelle più a vista, rossi e bruni per la polvere calda in emissione, aranci dove la radiazione scava. È una cartografia, non una truffa, una mappa tematica del centro galattico costruita perché sia leggibile, ripetibile, confrontabile nel tempo. Quando l’immagine ci sembra troppo bella per essere vera è spesso perché è vera in un altro linguaggio, quello della fisica, e noi siamo ancora al corso d’italiano base.
Dentro questa scena tradotta il protagonista fa il suo dovere, Sagittarius A* si vede per indizi, per fiammate nell’infrarosso e nei raggi X, per orbite stellari che girano strette, per una massa dedotta come si deduce il peso di un pianeta dal modo in cui piega la luce. I numeri tornano, quattro milioni di masse solari circa, a una distanza di otto kiloparsec, e tutto combacia con l’idea che al centro ci sia un buco nero, il più vicino a noi con cui fare prove generali di relatività e di pazienza. L’universo non ama gli autografi, ma ogni tanto concede un’iniziale.

Sagittarius A*
Questa abitudine alla falsità vera non nasce con i telescopi spaziali, viene da lontano, da quando Edward Emerson Barnard infilava lunghe esposizioni con lenti da ritratto e tirava fuori lastre di Via Lattea che, in bianco e nero, mostravano nuvole stellari e fenditure scure dove le polveri facevano schermo. Quelle fotografie, all’inizio Novecento, hanno insegnato a vedere la Galassia come struttura, non come abbellimento da serata estiva. Zero colori, tutta sostanza, ed è strano come il bianco e nero, tolte le luci di scena, finisca per raccontare meglio l’architettura di casa nostra.
Oggi guardiamo il centro con Spitzer, con mosaici infrarossi, con il James Webb, con strumenti a terra che bucano la polvere dal Cile, e ci ribaltiamo sulla sedia davanti a quelle mappe a colori falsi che però catalogano età stellari, temperature della polvere, fronti di compressione. Il cervello gode, il purista protesta, la scienza spunta la casella dei dati, tutti contenti, più o meno. La verità, quella utile, è che queste tavolozze ci permettono di misurare, tornare tra un anno, ricomporre lo stesso campo e capire se qualcosa si è mosso, scaldato, acceso. Il colore non è trucco, è legenda.
Nel frattempo a terra ci siamo abituati a una seconda finzione, quella comoda, il telefono in tasca che in modalità notte accumula scatti, pulisce il rumore, allunga le ombre, gonfia il contrasto, e, se glielo lasci fare, inventa stelle che non c’erano e colori che al buio non vedresti. La fotografia computazionale è una grande alleata quando serve memoria rapida, però nel cielo profondo, se cerchi onestà, diventa un ventriloquo educato, fa parlare la scena con la sua voce e non con la tua. A volte funziona, spesso è un teatrino. L’universo non ha chiesto filtri bellezza, siamo noi che li attiviamo senza leggere il bugiardino.
Se dovessimo volare davvero sopra il bulge, librarci tra le nubi scure della Grande Fenditura e guardare verso Lambda Scorpii, l’impressione sarebbe di materia diffusa e opaca, punteggiata da stelle in quantità offensive, ma senza quella caramellata cromatica che i poster ci hanno promesso. La nostra retina, in regime scotopico, fa il suo meglio con i toni, non con le tinte, e il cielo reale è più vicino a una stampa al carbone che a un display ad alta gamma dinamica, più trama che smalto, più densità che glitter. Se poi qualcuno vi dice che vede tutto come in una tavolozza di pittore, chiedetegli che ottica interna usa, e soprattutto chi gli fa la taratura.
stessa porzione di cielo, uno ad occhio nudo, l'altro con l'occhio vestito
C’è anche un equivoco culturale da sciogliere, abbiamo imparato a vedere complotti ovunque, quindi quando dici che l’immagine è a colori falsi scatta l’occhiolino, come se ci fosse trucco e inganno. In realtà è l’esatto opposto, si dichiara l’artificio proprio per rendere onesta la lettura, si spiega che rosso significa polvere calda, blu significa stelle più a nudo, arancio fronti energetici. È una grammatica, e come tutte le grammatiche la impari usandola, non smascherandola. Nel dubbio, la scorciatoia è sempre la stessa, leggere la didascalia, lì dentro spesso c’è più verità che in cento thread indignati.
La vecchia guardia, quella delle lastre, ci ricorda che l’essenziale del centro galattico non ha bisogno di effetti, il bulge è un rigonfiamento di stelle, popolazioni più antiche, una barra che incanala gas verso il nucleo, regioni di formazione stellare sparse, e una selva di polveri che nel visibile disegnano fenditure nere, quelle stesse che Barnard catalogava con pazienza contadina. La nuova guardia, quella degli infrarossi, ci dà la mappa aggiornata e la fisica in sovraimpressione. Tra i due estremi ci siamo noi, con strumenti miliardari o con telescopi da balcone, a scegliere ogni volta se raccontare un’emozione o una misura, oppure entrambe, ma separandole con una riga chiara.
In pratica, quando parlo del Centro della Via Lattea sto cercando di ricordare a me stesso due cose. Primo, che le immagini che mi hanno educato lo sguardo sono false per l’occhio ma vere per la fisica, e il loro valore sta nel come traducono, non nel quanto assomigliano a ciò che vedrei fuori dal finestrino. Secondo, che la postproduzione non è un peccato originale, è uno strumento, diventa peccato quando finge di non esserlo. Se poi l’universo avesse un ufficio stampa chiederebbe, per favore, meno saturazione e più entropia, e una liberatoria in duplice copia, non si sa mai.


























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