L’insensato senso sbagliato delle fotografie moderne
- Alessandro Fabiani

- 11 minuti fa
- Tempo di lettura: 2 min

Una foto può avere mille scopi: può nascere per gioco, per scherzo, per lavoro, per rabbia, per malinconia, per noia o per puro diletto. Ma alla fine, se gratto via tutti gli strati, resta una cosa sola: il ricordo.
Il ricordo è qualcosa che non possiamo controllare davvero. Esiste proprio perché dimentichiamo. La fotografia è quel frammento di tempo che ci permette di rivedere tutte le sfumature che la nostra mente, inevitabilmente, perde per strada. Se esistesse davvero il Pensatoio della saga di Harry Potter, quello in cui Silente deposita i suoi ricordi più importanti, per noi sarebbero le fotografie a fare quel lavoro.
Mi viene in mente quando, dai nonni, prendevo quei vecchi album logori, pieni di immagini di giovani sorridenti. Momenti fissati nel tempo: una partenza per la guerra, un ritorno, le nozze. Nulla di esasperato, nulla di stravagante, nessun tentativo di apparire diversi. Si era così, punto.
Oggi, la tracotanza delle immagini – questa produzione continua, spesso inutile, di scatti senza un vero valore intrinseco – ha distorto quello che, per me, è il senso della fotografia. L’istante fermo, il momento che, riguardandolo, ti scatena dentro una catena di ricordi che altrimenti resterebbero chiusi da qualche parte, in un angolo buio del cervello.
Io vorrei ritrovare questo nelle fotografie: meno immagini, meno momenti inutili, meno sequenze senza un motivo. Abbiamo la possibilità di registrare pezzi di vita che un domani non esisteranno più, di lasciare alle generazioni future un “noi” autentico, o almeno un’ombra credibile di ciò che siamo stati. E invece stiamo sprecando questa possibilità per imbellettarci di filtri, pose ridicole, sorrisi tirati, mentre trascuriamo le cose importanti: una famiglia seduta a tavola, un figlio che gioca, un genitore in un momento che sembra banale, ma che in realtà non tornerà mai più.
In più, viviamo un tempo di repressione espressiva mascherata da tutela, sicurezza, decoro. Vincoli artificiali imposti da programmi, piattaforme e regolamenti insensibili decidono al posto nostro cosa si può mostrare e cosa no. Un governo può stabilire che non si devono più vedere certe immagini di guerra, perché rischierebbero di mettere in luce le colpe dei “buoni” o, peggio, di far intravedere l’umanità dei “cattivi”.
Intanto i social sono inondati di consigli su come mettersi in posa per assomigliarci tutti: riprese dal basso o dall’alto, gambe accavallate, spalla in avanti, profilo “giusto”. Nessuna postura è davvero naturale, spontanea: è tutto studiato per uno sguardo che non vediamo mai.
E allora la domanda viene quasi da sola: a chi stiamo dedicando davvero questi momenti? A quali occhi? A quale pubblico? Ha davvero senso fotografare la nostra vita per compiacere un algoritmo che non sa nemmeno che esistiamo, mentre rischiamo di dimenticarci di fotografare le persone e i momenti che, un giorno, ci mancheranno?
Forse il vero senso della fotografia è tutto lì: non nell’essere visti da tutti, ma nel poter rivedere, domani, ciò che non tornerà più.
















Commenti