Leggere una foto: “Pillars of Creation”, versione Webb
- Alessandro Fabiani

- 13 minuti fa
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I Pilastri della Creazione stanno dentro la Nebulosa Aquila, più o meno a 6.500 anni luce, colonne enormi di gas e polvere che collassano e mettono al mondo stelle nuove, una sala parto cosmica con pazienti molto pazienti. La NASA e l’Agenzia Spaziale Europea li fotografano da decenni, e ogni volta che arriva un nuovo telescopio succede la solita scena da fotografo che scarta un corpo macchina appena uscito, si apre il file, si guarda lo schermo in silenzio, poi si decide che bisogna rifare tutto da capo. È andata così nel 1995 con Hubble, di nuovo nel 2014 con la versione aggiornate delle sue ottiche, ed è successo nel 2022 quando il James Webb Space Telescope, JWST cioè il telescopio spaziale intitolato a James Webb, ha puntato l’infrarosso vicino e medio e ha tirato fuori un livello di dettaglio che, ammettiamolo, fa venire voglia di riformattare l’hard disk e ricominciare.
Guardare quell’immagine senza capirne la parte tecnica è come guardare un negativo di medio formato controluce, ti perdi metà del film e l’altra metà litiga con te. Meglio procedere per gradi, come quando apri una stampa fine art grande e la leggi con le mani dietro la schiena per non rovinarla, prima il colpo d’occhio, poi le cuciture.
Il colore viene subito a bussare. Nella versione del JWST non è colore “reale” in senso umano, a meno di non essere una lucertola con permesso d’ingresso in un laboratorio militare nessuno di noi vede naturalmente a 4,5 o 10 micron, cioè nel medio infrarosso. Quello che vediamo è una mappatura cromatica decisa a tavolino, un abbinamento tra filtri infrarossi e toni visibili. “Falso” è parola corta, la traduzione è più corretta, come quando stampo in bianco e nero e decido io quanti neri spingere e quanta pelle lasciare lattiginosa, non sto barando, sto interpretando. Le lunghezze d’onda più lunghe, mid infrared catturate con MIRI, Mid Infrared Instrument cioè lo strumento per l’infrarosso medio, diventano spesso rossi e aranci perché raccontano polvere calda che emette da sola, non luce riflessa. Le lunghezze d’onda più corte, near infrared viste con NIRCam, Near Infrared Camera cioè la camera per l’infrarosso vicino, virano su blu e verdi e mettono a nudo stelle giovani e sculture di gas affilate. In pratica il colore qui è un codice fisico, non un capriccio estetico, e se i fotoni non sono d’accordo peggio per loro, hanno avuto miliardi di anni per farsi capire.
Poi arrivano quei punti rossi con gli spike a otto punte che fanno brillare gli occhi e storcere il naso ai puristi. Lungo i bordi delle colonne si vedono piccole sfere incandescenti, spesso circondate da punte di diffrazione, sono protostelle, stelle allo stadio infantile, ancora in bozzolo di polvere, non hanno una fusione stabile ma sono già abbastanza calde da brillare nell’infrarosso. Gli spike nascono dalla geometria dello specchio segmentato del Webb e dalle sue strutture di supporto, il primario è fatto da 18 segmenti esagonali e questo disegna sei punte principali più due più deboli, in tutto otto. In fotografia terrestre le punte le tiri fuori chiudendo molto il diaframma davanti a sorgenti puntiformi, qui è l’ottica stessa del telescopio a firmare la scena. È un autografo di metallo e luce, un po’ come il bokeh a ciambella dei catadiottrici sovietici, se non ami le aberrazioni probabilmente non ami nemmeno i parenti nelle feste comandate.

La tridimensionalità è il passaggio successivo. I Pilastri non sono piatti e non hanno nessuna intenzione di fingere, sono colonne spesse anni luce scolpite dal vento stellare e dalla radiazione ultravioletta delle stelle più massicce lì vicino. Con il JWST il modellato esce fuori quasi scultoreo, bordi netti dove la radiazione erode la nube, ombre morbide dove il gas è in ombra, pennacchi che si staccano come fumo lento. Per chi fotografa è una lezione pulita su come la luce radente costruisce il volume. Non è distante da quello che succede a una facciata in cemento armato una mattina fredda a Roma Est, il sole basso a novembre prende l’intonaco di traverso, ogni crepa diventa incisione, ogni cavo tirato male è una linea calligrafica, stessa logica, luce laterale, texture, rilievo, e se il quartiere protesta gli rispondi che la fisica non fa sconti nemmeno ai condomini.
La narrativa implicita cambia la prospettiva. Hubble aveva già trasformato i Pilastri in un’icona estetica, gotico spaziale, cattedrali di polvere, un’immagine da album di famiglia dell’universo con il vestito buono. Il JWST sposta il discorso sulla biologia stellare, meno posa, più diagnosi. Dove Hubble suggeriva silhouette romantiche, qui si leggono laboratori di formazione in diretta, nursery puntate a dito, eccola, quella sfera rossa con otto punte, lì dentro sta nascendo una stella adesso, non domani. È come passare dall’esterno di una chiesa barocca a una sezione tecnica da cantiere, ferri evidenziati, impianti in vista, qui passa l’acqua, qui corre l’aria, questo pilastro scarica qui. Meno romanticismo, più sostanza, e la sostanza in fondo è più sentimentale del romanticismo, perché non finge.

La pulizia del segnale completa il quadro. L’infrarosso buca molta polvere che nel visibile copre i dettagli e, allo stesso tempo, il numero di stelle visibili esplode. Per noi terrestri è come montare un polarizzatore che toglie foschia e poi spingere un focus stacking infinito, bello, utilissimo, ma per il pubblico rischioso, perché l’occhio inesperto si perde nel tappeto stellare e smette di capire cosa sta guardando. Se devi raccontare quell’immagine, al pubblico o a un cliente, devi guidare lo sguardo, prendi per mano e mostra il bordo, indica la cuspide che si stacca, dentro c’è una stella che nasce, non dare per scontato che la gerarchia visiva si presenti da sola, nemmeno davanti a un fuoco d’artificio così educato. L’universo è vasto, l’attenzione no, e tra i due quello permaloso non è l’universo.
C’è un ultimo punto che non fa scena ma fa chiarezza. Tutti dicono che è bello, pochi ricordano che è una misura. Quell’immagine è letteralmente un insieme di dati, ogni colore è una banda spettrale precisa, ogni banda racconta condizioni fisiche, temperatura, densità, presenza di certe molecole, e quelle condizioni dicono a che punto del processo di formazione sei. Non è una foto del tramonto presa al volo, è un’ecografia dell’universo giovane in formato glamour, con luci gentili e referto clinico. Per questo la considero un laboratorio didattico esemplare, in un solo fotogramma entrano estetica, fisica della luce, ottica dello strumento e narrazione visiva, il tipo di miscela che vorrei vedere anche qui a terra quando decidiamo che qualcosa per noi è importante. Se poi le stelle pretendono la privacy chiederemo il consenso informato, ma intanto scattiamo, perché l’universo è timido, non è detto che ripassi.
















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