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Intervista a Marco Ponzianelli


Marco Ponzianelli

Marco Ponzianelli, è un fotogiornalista e fotografo d’architettura romano.


Tra il 2014 ed il 2018 riceve il primo posto al Neutral Density Photography Awards nella categoria “Editorial/Documentary”, terzo posto al Moscow International Awards e 10 menzioni d’onore in diversi fotocontest internazionali.

Ha pubblicato i suoi lavori su magazine come “Design Boom", "Grazia Russia", "The Post Internazionale", "Dear", "Divisare" ed altri.



Ha esposto le sue opere a Roma, Amsterdam, Parigi, Grenoble durante “Le Mois De La Photo” ed Arles durante i rinomati "Les Recontres d’Arles" 2017 e 2018.


Benvenuto sulle pagine di Fotografiamo Marco. Potresti raccontarci come hai intrapreso la carriera di fotografo e perché?


Ciao a tutti, vi ringrazio per l’invito su Fotografiamo.

Dovremmo stabilire cosa intendere per ‘carriera’. Ho iniziato a fotografare da bambino, il regalo dei miei genitori al mio compleanno di 6 anni fu una macchina fotografica rossa e gialla, ovviamente, analogica. Papà fotografa per passione, sono cresciuto tra obiettivi, rullini ed attese aspettando ‘la luce giusta’ durante le uscite e le vacanze con i miei genitori. Ho perso l’abitudine a scattare durante l’adolescenza per poi riprendere. All’età di 21 anni, venendo da un mestiere totalmente diverso, ho avuto l’intuizione di provare a fare qualcosa di creativo che mi piacesse davvero. Forse è stata una scelta dettata dall'incoscienza, perché non avevo la minima idea di cosa mi aspettasse e di come trasformare quello che era un interesse in un lavoro vero. Soprattutto non ero consapevole (era il 2012) di come il mercato fotografico proprio in quegli anni stesse andando incontro ad un rapido declino. Osservando il tuo recente lavoro sui Rom viene inevitabile fare un collegamento a Joseph Koudelka e all'opera che lo ha reso celebre. La mia impressione è che gli zingari ritratti da Koudelka in Slovacchia 50 anni fa non siano molto diversi da quelli da te ritratti oggi in Italia, e che la natura nomade di quel popolo consista soprattutto nel vivere intenzionalmente il tempo storico ed il contesto geografico in maniera differente dal resto del mondo. Hai mai avuto una simile sensazione durante la tua ricerca?


Assolutamente si, ma credo siano molto diversi rispetto al passato e poi c’è da fare una considerazione, il mio lavoro sui nomadi è stato svolto soltanto nei campi Rom di Roma.

Roma è un caso a parte, la massima espressione fallimentare del Bel Paese ed anche i nomadi di Roma lo sono. Infatti, la mia intenzione è di restituire a queste persone una dignità, un’identità, un fascino che stanno perdendo e che sicuramente ai tempi di Koudelka erano caratteristiche visibilmente più tangibili anche nei nomadi di Roma.

Ti faccio un esempio: trovare una donna vestita con abiti tradizionali è veramente difficile e se le chiedi di indossarli risponde di no. Vogliono assomigliare a noi ma non gli piacciamo. Ci guardano da lontano, schivi, noi abbiamo paura di loro ma anche loro di noi. E’ contraddittorio ma è cosi’. Questa condizione assurda nella quale vivono li porta ad idealizzarci in quanto ricchi e benestanti per poi odiarci allo stesso tempo in quanto diversi ed ostili a loro.

Sono colpevoli e vittime di un sistema incapace di integrare.



Per ritrarre qualcuno nella sua intimità domestica è sempre necessario ottenere il suo permesso. Come sei stato accolto dalla comunità Rom e quale è stata la tua chiave di accesso in quel mondo?


La capacità di riuscire ad entrare o di saper stare in determinate situazioni, è una delle prime qualità che deve avere un fotogiornalista/reporter. Tengo a sottolinearlo perché spesso lo si dimentica.

La loro accoglienza nei miei confronti è sempre sul filo del rasoio. Ovviamente la disponibilità varia da soggetto a soggetto, ma rimane comunque labile. Tutto può cambiare nel giro di un secondo. Bisogna ricordare che abbiamo a che fare con una cultura molto lontana dalla nostra, costruita su dinamiche differenti, sulla superstizione, sull’estrema emarginazione che vivono e, giustamente, con una forte diffidenza nei nostri confronti.



Cosa ricerchi nella fotografia di architettura, e che cosa è per te l'architettura?


Come fotografo sono interessato alla dimensione antropologica dell’uomo. L’architettura è strettamente legata all’uomo. E’espressione culturale, evolutiva, artistica e filosofica dell’essere umano. Per questo la fotografo.

Poi fotografandola ho scoperto tanti altri buoni motivi per farlo. L’architettura è proporzione, dimensione, composizione, prospettiva, ordine e disordine.

Come la fotografia.

Che tipo di attrezzatura utilizzi per il tuo lavoro?


L’attrezzatura che utilizzo è varia. La fotografia per me è un mezzo e non un fine. Se per arrivare al mio fine (che non è la foto stessa ma il messaggio che voglio far passare) ho bisogno di una fotocamera di plastica da 30 euro, utilizzerò una fotocamera in plastica da 30 euro, come già successo. Se mi occorre una fotocamera e delle ottiche costose, utilizzerò una fotocamera e delle ottiche costose. E’ tutto molto relativo.


La fotografia è stato un percorso di ricerca interiore per te? Ti ha aiutato a conoscere meglio te stesso e già che ti circonda?


Penso di si. Ma ovviamente non perché l’azione di fare foto porti ad una ricerca interiore o a fare qualcosa di speciale. Per acquisire un livello espressivo decente bisogna lavorare molto, studiare molto e conoscere gli altri ma soprattutto imparare a capirli. Chiedersi sempre il perché di una cosa, non giudicare. Questo lo trovo già un grande percorso interiore, cercare di capire il perché delle cose.


Come descriveresti la situazione attuale della professione in Italia e in Europa?


Una catastrofe ed in Italia ancora peggio. L’Italia nonostante partorisca eccellenti fotografi e tra l’altro in quantità maggiore rispetto al resto del mondo, non fa girare il sistema. C’è poco lavoro e la retribuzione media per un incarico è praticamente la metà di stati come la Germania, Inghilterra, Francia e via dicendo. E’ vero che l’Italiano riesce comunque ad emergere, ma non bisogna adagiarsi su questo, sicuramente almeno per due motivi:

  1. Non essendoci cultura dell’immagine il cliente/spettatore non da valore al lavoro del fotografo, non sa sceglierlo ne giudicarlo. Questo ovviamente comporta una forte diminuzione degli incarichi che già sono giunti al tracollo con l’avvento del digitale.

  2. Spesso i giovani e meno giovani portano il proprio talento ed il proprio lavoro all’estero o addirittura si trasferiscono, questa è veramente la più grande sconfitta.

A mio parere qui si potrebbe fare tutto meglio degli altri, ma dobbiamo cambiare mentalità.

Questo non significa che tutti debbano studiare fotografia. Tutt’altro. Faccio un paragone con la situazione che vivono i musicisti italiani rispetto, ad esempio, gli inglesi. Ho vissuto a Londra e lavorato nel Jazz e ti assicuro che è un altro pianeta. Ma non è che siano dei geni, i musicisti italiani sono bravissimi ma in Inghilterra parlano di musica, scambiano, interagiscono, suonano con chiunque incontrino per strada. Chi non è musicista è conoscitore di musica. Stessa cosa per la fotografia. Fanno parte della cultura generale. Cosi’ si creano le idee, la crescita, il fermento. Il fermento incrementa i talenti, crea nuovi linguaggi, fa girare i soldi.


Qual é il futuro della fotografia per te? Viviamo in un’epoca d'oro, di declino o di trasformazione? Un autore può ancora incidere nel mondo?


Questa è una gran domanda. Da quella che è la mia esperienza e l’idea che mi sono fatto ti rispondo di trasformazione. Sicuramente ora siamo ancora nel declino, ma dopo un declino probabilmente ci sarà una rinascita. Paradossalmente anche se il mercato del lavoro è in crisi la fotografia è vivissima. Ad esempio, il fatto che ora tutti fotografano con gli smartphone, oltre all’incremento di molta immondizia fotografica, sta generando la nascita di nuovi linguaggi.

Forse tra 15 anni non esisterà più la figura del fotografo che scatta con la fotocamera al collo, ma di questo non bisogna preoccuparsi troppo. E’ dovere dell’artista, ma anche del semplice professionista, interpretare la propria epoca o, addirittura, anticiparla.

Ho vissuto sulla mia pelle questa situazione.

Con il passare del tempo ho cambiato tantissimo il mio linguaggio fotografico, ho odiato, amato e messo in discussione cento volte quello che è stato il mio primo amore, ho subìto le influenze di linguaggi differenti.

Con il tempo ho dovuto accettare la“morte” del fotogiornalismo classico, quello che ha fatto la storia della fotografia, spostandomi sempre più verso altri linguaggi che tendono alla fotografia d’arte. Tuttora non so dove arriverò, ma la ricerca è importante, infatti con il tempo ha portato i suoi risultati. Se fossi rimasto inchiodato al mio primo approccio non avrei concluso nulla, né avrei provato a dire qualcosa in una forma diversa, più attuale, più fresca.

E’ stato difficilissimo per vari motivi ma adesso sono felicissimo di quello che sta succedendo.


Un autore può assolutamente ancora incidere nel mondo e ce ne sono molti che ancora lo fanno.


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