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Colore falso, verità vera: l’onestà sporca dell’astrofotografia moderna

Ogni volta che esce una nuova immagine del James Webb Space Telescope, JWST cioè il telescopio spaziale intitolato a James Webb, si riaccende la solita obiezione, “sì ma quei colori sono finti”. È un’obiezione comprensibile, eppure mal posta. Sono “finti” nel senso letterale, l’occhio umano non vede nell’infrarosso medio, quindi non percepisce quelle nubi aranciate con strutture turchesi bordate di rosso, ma non sono finti nel senso di ingannevoli. Sarebbe come accusare un disegno tecnico di mentire perché mostra in sezione i ferri dell’armatura, nella vita quotidiana nessuno guarda una trave tagliata a metà, eppure il disegno dice la verità in modo più utile di una fotografia ambientata. Qui il punto non è il mimetismo, è la leggibilità.


Scrivo questo articolo perché negli ultimi mesi mi sono avvicinato alla fotografia astronomica in modo metodico, ho messo le mani su catadiottrici, moltiplicatori di focale, acquisizioni video da sezionare con software di stacking, e da quel lavoro sul campo ho dedotto alcune cose che mi hanno rimesso in ordine le idee. Ogni immagine è una trattativa tra il segnale che la natura concede e il modo in cui lo strumento lo registra, che si tratti di un tubo ottico sul terrazzo o di un osservatorio in orbita.


Un sensore, terrestre o spaziale, registra segnali che poi vanno interpretati. Nel caso del JWST parliamo di strumenti come NIRCam, Near Infrared Camera cioè la camera per l’infrarosso vicino, e MIRI, Mid Infrared Instrument cioè lo strumento per l’infrarosso medio. Queste bande penetrano nella polvere cosmica e rivelano strutture fredde o calde che nel visibile resterebbero nascoste. Se riprendo la Nebulosa Aquila nell’infrarosso medio sto misurando l’emissione termica della polvere, sto individuando protostelle ancora avvolte nel gas, sto riconoscendo fronti d’urto dove un getto supersonico si scontra con il mezzo interstellare. Non è estetica patinata, è fisica resa visibile.


Nebulosa Aquila nell’infrarosso medio
Nebulosa Aquila nell’infrarosso medio

Arriva poi la fase di traduzione cromatica. Le bande infrarosse vengono associate a colori nel visibile non per strizzare l’occhio a Instagram, anche se le tavolozze sature piacciono a molti, ma per assegnare a ogni informazione fisica un’etichetta coerente. Si legge l’immagine come una mappa tematica, rosso come proxy della polvere calda in emissione, blu e ciano per le componenti più energetiche e le stelle giovani quando la linea di vista è pulita, aranci più intensi dove la radiazione erode la nube e innesca la formazione stellare. Questa codifica è ripetibile, quindi utile a fare confronti nel tempo, se tra due anni riprendi la stessa regione con gli stessi filtri puoi verificare cosa è cambiato. Non è un filtro vintage, è metodo scientifico applicato a un’immagine.


Il parallelo con l’astrofotografia amatoriale avanzata è diretto e, per chi lavora davvero, familiare. Le cosiddette palette Hubble o SHO, cioè SII, Ha, OIII, rispettivamente zolfo ionizzato, idrogeno alfa, ossigeno doppio ionizzato, sono mappature consapevoli di emissioni strette. Si usano filtri a banda stretta per isolare linee spettrali precise, poi si assegnano quei tre segnali ai canali RGB, rosso verde blu, e si ottengono nebulose dorate, verdastre o blu elettrico che l’occhio non vedrebbe mai dal vivo. Non è capriccio, è un linguaggio. Quella tavolozza racconta chimica ed energia, dove domina l’idrogeno, dove brilla l’ossigeno ionizzato, dove il gas è eccitato da shock. Il JWST fa lo stesso gioco su scala maggiore, con sensibilità e controllo del segnale che a terra ci sogniamo.


La questione etica nasce quando un’immagine costruita come rappresentazione scientifica viene ripresentata come “così appare oggi la Nebulosa X”. Non è una bugia plateale, è una scivolata semantica, il cugino cosmico del “questo ritratto è senza ritocchi” dopo mezz’ora passata a ripulire pelle e occhiaie. Tecnicamente puoi cavartela, culturalmente stai pilotando la percezione. Il confine che conta, anche per chi fotografa sulla Terra, è tra immagine come misura e immagine come racconto. Sono due funzioni legittime, vanno solo dichiarate.



La lezione diventa ancora più evidente quando ci si sposta su Luna e pianeti. Quante volte Saturno esce con anelli troppo aggressivi, giallo mostarda da cucina anni Settanta, e la Luna con crateri affilati da maschere di contrasto che a occhio nudo non esistono. Qui non c’è un telescopio spaziale a semplificare la vita, c’è un sistema ottico vintage, ci sono moltiplicatori di focale, c’è un video catturato a frame rate sufficiente per battere il seeing, cioè la turbolenza atmosferica, e ci sono software come AutoStakkert oppure Siril che selezionano i fotogrammi migliori, allineano e mediano, seguiti da filtri wavelet, filtri multiscala pensati per enfatizzare il dettaglio a scale diverse, che rivelano la microstruttura. Tutto corretto e, quando è dichiarato, virtuoso. Il risultato però non è “così vedresti la Luna dal balcone”, è “così la Luna si manifesta nei dati una volta domata l’atmosfera e ottimizzato il rapporto segnale rumore”. È onesto, se lo dici.


Credit: Andrew McCarthy e Connor Matherne


Per questo la domanda utile non è “è falso”, ma “sto dichiarando cosa ho fatto”. Se scrivo che Giove è uno stack di duemila fotogrammi estratti da un video, elaborati con wavelet per evidenziare le bande, sto facendo informazione e sto educando chi guarda. Se accompagno lo stesso file con un “Giove stasera dal terrazzo” come se fosse lo scatto singolo del secolo, sto cercando applausi facili. La differenza è etica, certo, ma è anche formativa, perché costruisce il pubblico che poi troveremo sotto le nostre immagini.


Le agenzie spaziali su questo sono abbastanza chiare, le didascalie ufficiali del JWST spiegano che si tratta di compositi multibanda, elencano gli strumenti, specificano che i colori sono assegnati per distinguere componenti fisiche differenti, dalle protostelle nascoste alla polvere calda in emissione termica. È un modello virtuoso, l’artificio non si traveste, si spiega. In fotografia commerciale e di ritratto, spesso avviene l’opposto, la post produzione si mimetizza per mantenere la favola del “tutto naturale”. Eppure copiare l’approccio astronomico ci renderebbe più credibili, basterebbe dire che una foto è corretta secondo il proprio gusto per scaldare la pelle e approfondire le ombre, ed ecco, la spiegazione ha più onestà di qualunque “straight out of camera” pronunciato con il Picture Control su Vivid e la nitidezza alzata.


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La conclusione, filtrata dall’esperienza diretta con l’astrofotografia e dall’osservazione delle immagini scientifiche, è semplice e un po’ scomoda. I colori del JWST sono finti per l’occhio, ma veri per la fisica. Ogni tinta corrisponde a una misura, ogni mappa cromatica è una scelta consapevole, ogni scelta merita di essere raccontata. La vera disonestà non è cambiare i colori, la vera disonestà è fingere di non averlo fatto. Le immagini hanno un autore, sempre, e ogni autore ha una precisa agenda visiva, telescopi inclusi. Accettarlo non toglie poesia, la sposta su un piano più adulto, dove bellezza e verità trovano finalmente un accordo produttivo.

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