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Neve, vetri e teleobiettivi: quello che dicembre può imparare da Saul Leiter

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Saul Leiter©


C’è un motivo se quando nevica a New York le foto di Saul Leiter tornano alla mente come un profumo. Il colore non è solo una tinta, diventa un modo di respirare la strada. Leiter ha cominciato a farlo quando il colore era considerato roba da pubblicità e da riviste, eppure già tra fine Quaranta e anni Cinquanta riempiva di rosso, ambra e nebbia i suoi riquadri, scattando nei dintorni di casa, spesso entro poche strade dall’East 10th Street. La fondazione che porta il suo nome racconta un archivio immenso, decine di migliaia di stampe, diapositive, negativi, anche dipinti, custoditi e catalogati dopo la sua morte, un lavoro iniziato da Margit Erb nel 2014, con l’obiettivo di rimettere in circolo una voce che per anni è stata quasi sussurrata. 


Quel colore che oggi sembra naturale, allora era quasi una provocazione. Le immagini raccolte in Early Color fissano il periodo 1948, 1960, quando il bianco e nero regnava nei musei e il colore veniva relegato al commerciale per costi e complessità. Leiter piega quella convenzione e usa il cromatismo come campo pittorico, gli strati dei vetri appannati e dei riflessi diventano una tela assorbente. Non è un caso se la critica ha sottolineato che la sua stagione di New York anticipa di un decennio la piena legittimazione del colore nell’arte fotografica, e lo fa con una grammatica che sembra nata dal quartiere e non da una scuola. 


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Saul Leiter©


L’inverno gli dona armi gentili. La neve abbassa il contrasto, il vapore sui vetri fa da filtro, le luci di stop e taxi diventano pennellate. Una stampa del 1960 intitolata semplicemente Snow è quasi un manuale su come comprimere piani con una lunga focale e farli suonare come una tromba avvolta nel feltro. Le gallerie che lo hanno seguito ne hanno esposto il lato freddo e malinconico, ma sarebbe ingiusto confondere malinconia e quiete, perché qui c’è una messa in scena precisa, con un teleobiettivo che appiattisce, seleziona e dipinge fuori fuoco come se la profondità di campo fosse un colore a sé. 


Le scelte tecniche servono più del curriculum. Leiter gioca con i riflessi su finestre e specchi, sovrappone piani e lascia che una macchia rossa stacchi l’inquadratura come un accento su una sillaba. La riflessione non è un trucco, è la concessione di un secondo sipario davanti al primo, piccole fughe dentro l’inquadratura che raccontano il tempo in due tempi. Chi fotografa dicembre nelle nostre città può rubare il metodo, mettersi di lato al flusso, cercare superfici, lavorare con focali lunghe quando il caos chiede ordine e non spettacolo. La critica ha notato come teleobiettivi anche molto spinti abbiano contribuito a quella resa compressa e pittorica, a volte si parla perfino di 300 millimetri in lavori iconici, e non stupisce, perché quel respiro corto è un segno di punteggiatura. 


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Saul Leiter©


Tutto questo ha fatto scuola senza alzare la voce. Le biografie ricordano il ragazzo di Pittsburgh che scappa a New York nel 1946, il padre che lo voleva rabbino, gli anni lunghi prima dei riconoscimenti. Sembra la trama di un film in cui la città adotta lentamente chi ha la pazienza di guardarla attraverso il suo vapore. A noi, in dicembre, resta l’esercizio utile, scegliere un riquadro, aspettare che la temperatura dell’aria faccia il resto, trovare nel vetro un alleato, nel fuori fuoco un lessico, nella neve un diffusore naturale. Quando le vie diventano un acquario lattiginoso e i colori si appuntano come spille, allora è il caso di rimettere via le ricette e pensare che il colore, se è onesto, non urla mai, accompagna. La retrospettiva e i materiali della fondazione insistono su questa miscela di discrezione e invenzione, un equilibrio che con il freddo si fa evidente come una scia di respiro in controluce. 

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