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Venere 9: l’unica fotografia reale dal pianeta infernale scattata quasi 50 anni fa

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Immagina di essere un fotografo estremo: pronto a catturare un’immagine in un luogo dove la temperatura supera i 460 °C, la pressione è 90 volte quella terrestre, venti di acido solforico soffiando senza pietà, e disponi solo di 53 minuti per scattare e trasmettere la tua foto. Questa non è fantascienza: è ciò che affrontò Venera 9, la prima fotocamera umana posata su un altro pianeta.


La missione partì l’8 giugno 1975 da Baikonur con un razzo Proton-K, insieme alla sua gemella, Venera 10  . Dopo 126 giorni di viaggio, il lander si staccò dall’orbiter il 20 ottobre, per atterrare il 22 ottobre 1975 alle 05:13 UTC, nella regione di Beta Regio, intorno ai 31° N, 291° E  .


All’impatto, un sistema di ammortizzazione “a ciambella” assorbì il colpo, ponendo il lander su una pendenza di circa 20°, costellata di rocce spigolose da 30 a 40 cm. Il raffreddamento interno, mediante fluido circolante, ne permise il funzionamento per 53 minuti .


Quelle rocce, inspiegabilmente non erose, testimoniano l’assenza di venti violenti al suolo: l’aria, infatti, è così densa da bloccare qualsiasi turbolenza. Nonostante ci si trovi in un inferno di gas corrosivi, la visibilità era stupefacente: si potevano distinguere ombre nitide, un’illuminazione simile a una giornata nuvolosa sulla Terra (circa 14 000 lux), e l’orizzonte, limpido anche a distanza.


Ma il momento epico fu il rilascio delle due fotocamere panoramiche progettate per restituire un’immagine di 360°. Solo una riuscì a liberarsi: l’altra rimase chiusa, limitando il panorama a 180°  . Questo scatto, in bianco e nero, grezzo e granuloso, divenne la prima immagine da un altro pianeta, autentica e non interpretativa.


Chi ama la fotografia sa che non è sempre la bellezza a contare: quel frammento di intelaiatura metallica, quelle pietre decise, quell’illuminazione diffusa unica, raccontano una storia di conquista, di sopravvivenza, di coraggio tecnico. Ogni pixel, trasmesso a soli 256 bit/s tramite un sistema ottico‑meccanico resistente al calore, è un atto di fede nella potenza dell’ottica e nell’ingegno umano.


Durante la discesa, la sonda misurò venti quasi assenti vicino al suolo, contrariamente a quanto ipotizzato per il pianeta nebbioso. Il gamma‑spettrometro analizzò la composizione delle rocce, suggerendo compositi basaltici simili a quelli terrestri. Tutti i dati furono trasmessi all’orbiter, il primo satellite artificiale di Venere, che immagazzinò tutto e lo inviò a Terra fino al 22 marzo 1976, quando cessò le comunicazioni.


Venera 9 non è stata una semplice missione: ha rotto una barriera. Mentre le sonde precedenti (Venera 7, 8) riuscivano a testimoniare temperatura e pressione, solo Venera 9 portò una verità visiva, crudele e sublime assieme. Fu un assaggio dell’inquietudine venusiana, ordinato, paziente, impassibile.


E oggi, questa immagine è un faro. Per un astrofotografo, è l’apice della sfida: condizioni estreme, nessuna direzione da remoto, nessuna seconda possibilità. Un click, che ha fissato per sempre l’essenza di Venere.


Da allora, solo Venera 13 e 14 nel 1982 ci hanno regalato foto a colori , ma Venera 9 conserva un primato indelebile: la prima occhiata reale a un mondo che ci aveva sempre nascosto il suo volto.



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