Ventiquattro dicembre, un riquadro blu, la Luna in primo piano, e all’improvviso la Terra
- Alessandro Fabiani

- 2 giorni fa
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C’è un momento nella storia della fotografia in cui la Terra entra in scena come se fosse un ospite in ritardo, e sceglie il palcoscenico meno ovvio. È la vigilia del 1968, Apollo 8 sta girando intorno alla Luna, Bill Anders punta un Hasselblad modificato con pellicola Ektachrome da 70 millimetri e nel mirino compare una mezzaluna azzurra che si affaccia dal bordo grigio. Il fotogramma ha un nome che sembra un titolo di capitolo, Earthrise, la Terra che sorge. Da quel momento non guardiamo più il nostro pianeta nello stesso modo, anche se il pianeta, beato lui, non ha cambiato abitudini.
La cronaca tecnica è precisa, e vale la pena rispettarla, perché qui la forma è sostanza. L’immagine formalmente identificata come AS08,14,2383 viene scattata in orbita lunare con una 500 EL motorizzata e un tele da 250 millimetri, la capsula ruota, il bordo della Luna taglia la scena e la Terra sale in campo, un gioco di assetto e tempismo che i dati della sonda LRO hanno poi ricostruito al millimetro, restituendo quel momento in animazione come l’atto conclusivo di un duetto tra macchina e sorpresa. La NASA conserva la sequenza e la racconta come si racconta una prova generale che diventa prima. La parte buffa è che per anni ci si è ricamato attorno perfino su chi avesse premuto il pulsante per primo in bianco e nero, il colore però lo sappiamo, è di Anders, e basta.
Perché quella foto parla ancora a dicembre, oltre al fatto che è nata la vigilia di Natale. Per due ragioni che ci riguardano da vicino come fotografi. La prima è la composizione, un orizzonte alto e obliquo, la Terra fuori centro, un controcampo perfetto tra il bassorilievo lunare e la sfera viva sospesa nel nero. La seconda è il colore, il blu che non si vergogna, il bianco delle nubi, una pelle delicata che sembra quasi fragile, e che fragile lo è, non per la chimica ma per la politica. Non stupisce che negli anni l’immagine sia stata letta come una miccia dell’ambientalismo, il punto in cui l’ecologia smette di essere teoria e diventa una faccia che ti guarda. Una parte della letteratura popolare la chiama la foto più influente dell’ambientalismo, e al netto delle iperboli c’è da capire il motivo, un pianeta intero ridotto a un oggetto che si può tenere in una mano, con la Luna che fa da soglia.
La missione fece anche un’altra cosa, più terrestre e più televisiva. Durante l’orbita di quella sera i tre astronauti lessero i primi versetti della Genesi in diretta, un gesto che racconta molto dell’epoca e del bisogno di trovare parole antiche a un’immagine nuova. È curioso che a cinquant’anni di distanza quell’eco testuale sembri il contorno e non il piatto principale, come se la fotografia fosse bastata a fare la predica da sola. Prendiamola come lezione su quanto un’immagine vera possa bastare quando il contesto è solido.
Per chi scatta, Earthrise è un invito pratico. Ricorda che l’obiettivo lungo, messo dove serve, sa semplificare e far parlare i piani senza enfasi. Ricorda che l’inquadratura non deve per forza centrare il protagonista, a volte conviene lasciarlo entrare da un lato e farlo dialogare con un bordo severo. Ricorda soprattutto che il colore non è trucco, è fisica in emulsione, e se la fisica è pulita non c’è bisogno di urlare. La pagina ufficiale della NASA sullo scatto resta la migliore sintesi per chi vuole rimettersi nei panni di quell’orbita, dati asciutti e un’ironia involontaria, perché più si spiegano i numeri più la foto sembra poesia. In fondo capita spesso, quando il mestiere è stato fatto bene, che la tecnica diventi trasparente e resti solo la superficie del mondo a guardarci. Qui, letteralmente, la superficie è la nostra.
















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