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Intervista a Damiano Rosa, autore della mostra ICHI GO ICHI E al museo Pigorini di Roma

Vi abbiamo già parlato qualche settimana fa della mostra fotografica di Damiano Rosa che è attualmente in corso al Museo delle Civiltà di Roma. Abbiamo avuto il piacere di visitarla due volte, la seconda in occasione di una visita guidata in compagnia dell'autore, il quale ci ha potuto illustrare la storia ed il contesto dietro ad ogni foto.


Grazie infinite per essere qui con noi su Fotografiamo.net Damiano. Innanzitutto ti rinnovo i complimenti per il tuo lavoro. La semplicità con cui è allestita, l'uso esclusivo del bianco e nero di tecniche di sviluppo e stampa analogiche, fanno parte integrante della narrazione. Evocano l'essenzialità, la tradizione, il rito, elementi fondanti della cultura Giapponese a cui hai dedicato, non a caso, la prima sezione della mostra.

Potresti tradurci la frase che dà il titolo alla mostra, e raccontarci il valore che ha per te?


ICHI GO ICHI E è un frase legata tradizionalmente alla cerimonia del tè e al buddismo zen. Letteralmente significa “una volta un incontro”, vale a dire che ogni incontro è per una sola volta nella vita di conseguenza tutto deve essere preparato alla perfezione e l’ospite deve apprezzare ciò che si sta facendo per lui in quell’unica occasione irripetibile. E’ una filosofia di vita che pervade la vita dei giapponesi sin dai primi anni di scuola. Per i giapponesi è una frase quasi banale, ma per noi è di fondamentale importanza per capire il loro stile di vita e il modo di rapportarsi con gli altri. Io l’ho interpretata anche in chiave fotografica ovviamente: ogni occasione fotografica è unica e irripetibile. La selezione che ho fatto per questa mostra è stata guidata proprio da questa frase: ogni immagine è stata in un modo o nell’altro un momento irripetibile della mia esperienza personale col Giappone ed ho cercato anche di mostrare la cura che ogni giapponese mette nel lavoro di tutti i giorni, nei riti religiosi e civili, nell’educazione dei ragazzi. Spero di esserci riuscito.



Le foto esposte appaiono fuori dal tempo. Pensi che l'utilizzo della pellicola in bianco e nero e di ottiche vintage contribuisca a generare questa sensazione?


Sicuramente sì. Sono un inguaribile romantico e nonostante ogni tanto provi a fare qualche foto dal sapore più contemporaneo, ricasco sempre nella classicità. Sicuramente il fatto di aver scelto di scattare in pellicola Bianco e Nero e di utilizzare esclusivamente fotocamere meccaniche condiziona la mia ricerca. Dirò di più: quando decido di scattare, ad esempio, con la Leica M3 con il suo coevo Summicron 35mm 8 lenti, come per magia mi si parano davanti scene anni 50... e non solo in Giappone.


In che occasione hai scattato le foto che fanno parte della mostra, e in che arco temporale?


Ho scattato foto in tutti i miei viaggi in Giappone dal 2011 ad oggi. Le occasioni specifiche sono state le più svariate, ma raramente ho programmato che cosa scattare: capita di decidere di andare in un posto a 3 ore di treno e scattare poco o nulla e ritrovarsi invece dietro casa un festival di orchestre gagaku e consumare quattro rulli in un paio di ore.


Il fatto di essere percepito come uno straniero ti ha mai agevolato nel tuo ruolo di osservatore?


A volte sì. I giapponesi sono molto riservati, ma anche molto ospitali e sanno benissimo che noi occidentali siamo curiosi verso tutto quello che fanno. D'altra parte anche loro quando vengono da noi fanno lo stesso. In generale cerco sempre di non disturbare e di muovermi in punta di piedi. Cerco di non rubare la foto, ma anche di non costruire o forzare la situazione: si crea spesso una situazione singolare in cui io sono percepito, ma, allo stesso tempo, accettato come elemento estraneo osservante. La silenziosità dello scatto di una Leica M3 o M6 aiuta di certo e mi ricollego con questo al discorso fatto sull'importanza di una certa attrezzatura aggiungendo che spesso proprio l'attrezzatura mi ha aiutato ad instaurare un rapporto positivo con le persone incuriosite dalle anticaglie che avevo appese al collo che consideravano forse più innocue di una digitale che spara a raffica o di uno smartphone che in meno di 5 secondi avrebbe condiviso le immagini scattate in tutto il Globo.


Come descriveresti la città in cui abiti attualmente?


Vivo a Kuwana, una città della prefettura di Mie che dista pochi chilometri da Nagoya, la quarta città del Giappone. Posso quindi vivere la tranquillità di una città di provincia o andare a Nagoya in 30 minuti per vivere l'esperienza di una metropoli giapponese. Dove abito ci sono molti aspetti che ricordano l'Italia: le feste tradizionali, l'artigianato, l'agricoltura, i mercati, gli anziani. Manca però completamente il concetto di “piazza”. I giapponesi non si fermano quasi mai per la strada, non ci sono luoghi di aggregazione all'aria aperta se non in occasione della fioritura dei ciliegi con i tradizionali picnic nei parchi o di qualche festa tradizionale dove tutta la gente si riversa e si lascia finalmente andare un po'.


Che tipo di rapporto c'è in Giappone con la fotografia? Il Giappone è leader mondiale nella progettazione di fotocamere dal secondo dopoguerra ad oggi, ma conosco poco gli autori giapponesi.


La fotografia per i giapponesi è una necessità inderogabile. Tutti fanno foto. I giapponesi facevano foto ai piatti nei ristoranti anche quando c'era la pellicola! La fotografia è l'attività tipica anche di molti pensionati che, finalmente a riposo, si organizzano in gruppi e fanno mostre con fotografie di paesaggio spesso di alto livello tecnico nelle sale espositive dei maggiori brand fotografici. Quello che forse si considera meno è che la fotografia arrivò in Giappone molto presto e fu subito accolta e praticata con grande entusiasmo. Grazie anche a fotografi come l'italiano Felice Beato che si stabilì col suo studio a Yokohama dal 1863 la fotografia acquistò sempre più importanza nella cultura giapponese. Sarà una mia personale impressione, ma in Giappone c'è una distinzione abbastanza netta tra amatore e professionista. Tutti fanno foto, ma il professionista viene ancora considerato con rispetto e ammirazione e non ci si può improvvisare, c'è molta specializzazione. Si va ancora negli studi professionali per farsi fare ritratti di famiglia o di matrimonio in posa spendendo cifre per noi ormai impensabili. Poi ci sono i fotografi artisti di cui noi conosciamo solo una infinitesima rappresentanza: Araki e Moriyama non hanno bisogno di presentazioni. A loro tutto è permesso... anzi più infrangono regole e tabù e più hanno successo.


Nel quotidiano si vedono ancora persone che girano con la fotocamera al collo o si preferisce utilizzare lo smartphone? La fotografia tradizionale analogica è apprezzata?


Sicuramente il digitale ha incrementato l'uso della fotografia in tutte le fasce di età e di reddito. Ma penso che ormai, complici gli smartphone, le differenze che ci sono con il mondo occidentale sono ormai annullate. La fotocamera tradizionale, digitale o a pellicola, è ancora però in voga anche tra i più giovani. Anzi ti dirò che si sta affermando un trend molto curioso: vedo spesso ragazzi con fotocamere analogiche al collo contro uomini e donne adulti o maturi con digitali di ultima generazione. Nei negozi e nei magazzini c'è un grande assortimento di attrezzature e materiali analogici, unico neo è che la carta bianco e nero costa eccessivamente e sono costretto a portarmela dall'Italia.


Ciascuna delle immagini della mostra ha dietro di sé una storia. C'è una foto in particolare a cui sei particolarmente legato e che ti piacerebbe raccontarci?

Penso che una delle foto a cui sono maggiormente legato sia quella che è stata usata per la locandina e per la copertina del catalogo. Uno dei miei autori preferiti, Eugene Smith, spesso rimarcava che per completare un lavoro gli mancava una foto emblematica e finché non la trovava non si dava pace. Ecco, la foto dell'uomo in kimono bianco sulla soglia della casa tradizionale che guarda il giardino con i pini e le lanterne giapponesi è stata per me forse la foto che cercavo per completare la mostra. L'ho scattata in una villa vicino a dove abito. La villa appartenuta alla famiglia Moroto, ricchi commercianti di legnami da costruzione, è ormai da tempo un monumento visitabile. In autunno si svolge una rassegna di orchestre e danza gagaku. Un mattina mi sono svegliato con la musica tradizionale di flauti, organi a bocca e tamburi. Arrivato nella villa ho cominciato a scattare foto ai musicisti e a i ballerini. Poi gironzolando per le stanze vuote ho visto questa finestra aperta sul giardino. Ho inquadrato con il mirino aggiuntivo del 21 mm montato su Leica M3, un Voigtlander Color Skopar per la cronaca, e al momento di scattare appare quest'uomo che si ferma a contemplare il giardino. Il tempo di un unico scatto e lui già aveva ripreso il cammino. Non so a voi, ma a me capita di sentire una sensazione particolare quando faccio uno scatto speciale: mi si fissa nella mente quell'immagine e già so che sarà buona prima ancora di vedere il negativo sviluppato. Purtroppo non capita spesso...ma con questa foto sì.

Riguardando questa immagine con calma mi sono venuti in mente due concetti che Luigi Ghirri ha esposto magistralmente nelle sue “Lezioni di fotografia” e più precisamente il concetto di “soglia”, ovvero di quel confine più mentale che fisico che separa due ambienti, due situazioni, un interno da un esterno e quello di “inquadratura naturale”, ovvero di quelle situazioni in cui qualcuno prima di noi, o la natura stessa, hanno disposto gli elementi secondo una inquadratura prestabilita, una gentilezza che noi dobbiamo saper cogliere e semplicemente fotografare.

Un altro rimando ai grandi maestri è sicuramente all'opera di Werner Bischof che al Giappone, nei primi anni 50, dedicò un reportage di grandissimo fascino ed eleganza. Possiedo una copia dell'edizione originale e devo confessare che ha condizionato molto la mia ricerca.


All'ingresso della mostra c'è un pannello che ritrae le fotocamere e le ottiche che hai utilizzato per il tuo lavoro. Ricordo una Nikon F, una FM2 e diverse telemetro Contax e Leica. Quale fotocamera e quale ottica preferisci portare con te nel quotidiano?


Sicuramente la Leica M6 con il 35mm f/2 Summicron I° tipo con gli occhiali che alterno al Voigtlander Color Skopar 35mm f/2.5 quando voglio un ottica più compatta e discreta.

Qualche settimana fa abbiamo pubblicato una intervista a Liam Wong, un autore occidentale trasferitosi a Tokio come te. Gli ho chiesto fino a che punto la Tokyo che vediamo nelle sue immagini fosse frutto di interpretazione, e quanto ci fosse della città reale. Mi ha detto che probabilmente sarei rimasto deluso se viaggiando in Giappone se mi fossi aspettato di trovare la una corrispondenza con il suo immaginario visivo. Durante la visita alla tua mostra ci hai detto praticamente la stessa cosa, e il bello è che la tua narrazione, nell'approccio stilistico e nei contenuti, è diametralmente opposta a quella di Wong. Il Giappone è veramente una terra dai mille volti e forti contrasti o questa è l'ennesima prova che la fotografia è sempre e comunque una interpretazione della realtà?


Che la fotografia rappresenti fedelmente la realtà penso che sia una utopia e una grande truffa che dalla sua invenzione si porta dietro. Detto ciò, però penso che i fotografi e la loro ricerca si muovano entro due estremi dalle infinite gradazioni intermedie. Da una parte quello che potremmo definire il fotografo-artista che plasma la realtà, la reinterpreta, la trasfigura e ci proietta dentro il suo ego, il suo vissuto, i suoi tormenti, le sue gioie. All'estremo opposto il fotografo-reporter che cerca di raccontare obiettivamente i fatti senza alterarli con la sua presenza riproducendoli il più possibile come li sta vedendo con i suoi occhi. Questi due estremi mi è sempre piaciuto assimilarli ai tipi psicologici di Carl Jung che distingue l'introverso dall'estroverso ovvero fare del proprio mondo interiore il modello su cui plasmare la realtà esteriore o usare la realtà esteriore per plasmare il proprio io. La grandezza e l'unicità della fotografia è che entrambe le strade sono percorribili a volte incrociandosi a volte scambiandosi. La foto di cronaca diventa opera d'arte esposta nei musei, la foto d'arte, forse più raramente in verità, diventa documento storico o di cronaca. Il Giappone può deludere, su questo sono d'accordo con Wong. Il nostro Giappone immaginario è condizionato da manga, anime, film, letteratura. Il Giappone reale è diverso e spesso deludente. Io ho cercato di rappresentarlo con semplicità evitando gli stereotipi e gli artifici. Come diceva Mario Dondero, quando in una foto manca il contenuto, si calca la mano con le focali più estreme e gli effetti speciali.


Ho da tempo una curiosità personale che forse mi puoi aiutare a risolvere. Sono un grande fan dell'ingegner Maitani, capo designer della Olympus e progettista di alcune fra le fotocamere più belle mai costruite. So che fin da ragazzo non si separava mai dalla sua macchina fotografica, ma non sono mai riuscito a vedere una foto scattata da lui. Pensi che esista un suo archivio fotografico, o che si possano trovare dei libri di sue fotografie in Giappone?


Chiederò un po' in giro, ma già prevedo che la risposta molto probabilmente sarà negativa. Il motivo sta in quello che ti ho detto poc'anzi: I ruoli in Giappone sono quasi sempre ben distinti, se sono ingegnere non sono fotografo professionista e le mie foto, anche se capolavori, rimarranno chiuse in un cassetto.


Quali autori occidentali o giapponesi potresti consigliarci?


La lista potrebbe essere interminabile, ma sicuramente quelli che io amo sono tra gli occidentali che hanno fotografato anche il Giappone: Eugene Smith, William Klein, Abbas, Marc Ribaud, Werner Bishof. Tra gli orientali Eikoh Hosoe, Ken Domon, Shoji Ueda, Yasuhiro Ishimoto, Daydo Moriyama.

Grazie infinite!

Il catalogo della mostra è edito da Edizioni Espera e si può acquistare al seguente link:



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