Grazie per tutte le copie, ma io preferisco un originale difettoso
- Alessandro Fabiani

- 1 giorno fa
- Tempo di lettura: 3 min
Guardando un video su un social mi è venuto in mente un corteo di replicanti, tutti sincronizzati come un metronomo con la batteria scarica. Associazione un po’ forzata, lo so, ma il cervello collega come può, e quel filmato era una catena di gesti ripetuti. Ogni volta che qualcuno, per talento o per botta di fortuna, inventa un contenuto che funziona, in pochi minuti spuntano migliaia di copie: alcune identiche, altre ritoccate quel tanto che basta per fingersi diverse. Non è una novità, la storia dell’arte è piena di repliche autorizzate e di brutte copie spacciate per capolavori. La scintilla però è stata un’altra: un video in cui un fotografo ricostruiva lo stile di una foto diventata icona. Ho sentito montare un’ansia concreta, la fretta, il controllo compulsivo del display, lo scatto su scatto sullo stesso volto, come se il senso potesse apparire per esaurimento. Mi è sfuggito il senso di prendere un essere umano con i segni di una vita non facile, metterlo in posa, produrre centinaia di file, e poi lavorarli finché la sua storia diventa solo un effetto da replicare.
Instagram, TikTok, YouTube e soci sono ottime fotocopiatrici dell’immaginario. Generano repliche per utenti addestrati a imitare ciò che l’algoritmo rilancia perché è già stato imitato, e il cerchio si chiude soddisfatto. Il bello a ogni costo, il sensazionale a ogni inquadratura, lo scorcio perfetto tra le macerie, il manichino umano tirato a lucido: per arrivare a che cosa? A un’eco che fa rumore ma non parla. È la magia del trucco senza prestigiatore: si vede tutto e non succede niente.
Servirebbe tenere a mente una cosa semplice: la fotografia può essere anche un tempo di svago, un attimo per capirsi meglio, una piccola autointervista con la luce. Mi sento spesso in un mondo ossessivo compulsivo con un otturatore al centro, e non ho nessuna voglia di tenergli il tempo. Preferisco la fotografia spontanea, anche nel paesaggio, dove l’imprevisto è un alleato. La fotografia costruita può piacere, come un abito di moda che sta benissimo il giorno della sfilata e il giorno dopo reclama l’armadio. Non c’è peccato nel costruire, c’è noia quando lo schema si ripete solo perché deve piacere al conteggio dei like.
Il punto, più che morale, è pratico. Dichiarare la replica è studio, fingere l’originale è travestimento. Se si vuole citare, si citi. Se si vuole imparare, si copi pure, ma lo si dica apertamente, come un esercizio. Quando invece la copia viene spacciata per visione, nasce quel vuoto che ho sentito guardando il video, come una stanza arredata con mobili presi in prestito e nessuna fotografia alle pareti. Funziona a breve, non lascia traccia. È la dieta della creatività: promette molto, nutre poco.
Le piattaforme qui entrano in scena non per essere demonizzate, ma per quello che sono. Premiano ciò che riconoscono, preferiscono l’eco all’imprevisto, cercano la conferma più della scoperta. Lo fanno con immagini prodotte su strumenti di miliardari, spesso gratis, da cui ricavano altro profitto. Il risultato è una catena di montaggio travestita da parata, dove l’originalità viene trattata come un difetto di fabbrica. Il fotografo diventa addetto alla lucidatura: passa il panno sullo stesso oggetto finché brilla, poi passa al successivo.
Qualcuno dirà che è sempre stato così, che anche i grandi hanno fatto repliche e varianti. Vero, ma lì c’era una cosa che oggi spesso manca: una responsabilità dichiarata. La copia stava con nome e cognome dentro una genealogia, non fingeva di essere un’apparizione. Oggi la scorciatoia è più allettante perché il premio è immediato. E allora tocca a noi mettere un granello di sabbia nel meccanismo, non per fermarlo, ma per ricordargli che non tutto ciò che gira deve girare alla stessa velocità.
Propongo una ricetta senza ingredienti segreti. Prima di replicare, chiedersi che cosa si sta cercando davvero: non il come, il perché. Se la risposta è onesta, spesso il file cambia già in testa, l’inquadratura smette di inseguire la scorciatoia e torna a guardare. Se invece la risposta è “perché così funziona”, non è un delitto, basta ammetterlo. A quel punto la replica diventa consapevole, non pretende di essere altro, e magari, sorpresa, lascia spazio a un piccolo scarto personale. Anche un mezzo passo basta: la differenza non è tra copiare e non copiare, è tra copiare con coscienza e copiare per automatismo.
La battuta finale me la concedo, perché senza ironia ci irrigidiamo e le foto vengono tutte uguali. Se proprio devo essere una copia, preferisco essere la copia di me domani, così almeno ho un originale a cui rendere conto. Nel frattempo, al manichino truccato e allo scorcio perfetto continuo a preferire l’imprevisto che bussa mentre sto mettendo a fuoco: non è detto che venga bene, ma almeno è vivo, e non devo spiegargli perché.





















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